L’arte e l’antropologia migliori condividono un interesse comune: trasformare la vita e non riprodurla così com’è. In queste parole di Fiamma Montezemolo è custodito tutto il senso del suo lavoro, come lo esprime e lo riassume visivamente anche la magnifica opera Neon Afterwords (2016) attualmente installata alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, all’interno della mostra You Got to burn to shine curata da Teresa Macrì.

UN PERCORSO MOSSO dall’inquietudine e dalla mobilità concettuale e geografica, quello di Montezemolo, ripercorso ora da Anna Cestelli Guidi che all’artista e antropologa italiana dedica un brillante saggio, in italiano e inglese, appena uscito per Postmedia: Fiamma Montezemolo. Dell’inquietudine / Of Disquiet, pp. 90, euro 9,90). Un percorso che inizia nella Roma degli anni Novanta segnata dalla sperimentazione culturale che si organizza intorno a case editrici come Meltemi e riviste come Avatar, tirando le fila di quella decostruzione operata da James Clifford e altri che apriva la strada alla svolta postmoderna dell’antropologia culturale: non si hanno più culture, nel senso classico del termine, ma testi da scrivere e ri-scrivere, come del resto aveva già anticipato Clifford Geertz. Una svolta che per Montezemolo coincide anche con una dislocazione spaziale che la porta prima nella Selva Lacandona degli zapatisti, e quindi nel Messico fronterizo di Tijuana, altro laboratorio particolarmente vivo dei Novanta.
Una migrazione che si trasforma man mano nella consapevolezza che la frontiera da abbattere non è solo quella tra Stati, ma anche quella che separa chi sa da chi è oggetto del sapere, e quindi quella frontiera tra discipline che possono sì studiarsi a vicenda – l’antropologia che studia l’arte e l’arte che si fa etnografia – ma presuppongono sempre la possibilità di una rappresentazione che a sua volta si fonda su una separazione originaria.

NON C’È SEPARAZIONE invece – questa la scoperta che era già stata dell’operaismo quando affermava che la conoscenza è legata alla lotta – e niente da rappresentare, c’è invece una forma di vita nuova da costruire insieme, tra soggetti che partecipano allo stesso titolo alla costruzione di una esperienza vissuta. Per Fiamma Montezemolo – nel frattempo emigrata dal Messico negli Stati Uniti come docente in una prestigiosa università – questa scoperta, che vale per l’antropologia quanto per l’arte, si trasforma nella consapevolezza radicale che l’arte stessa può diventare pratica antropologica e quindi politica perché trasformativa e non più rappresentativa. Come nell’installazione di cui dicevamo – ispirata a un racconto di Borges – dopo le parole – ossia dopo la scrittura accademica – non può che venire la pratica dell’arte, una volta compreso che l’ultima frontiera da abbattere è quella identitaria che da sempre ossessiona la nostra cultura.

UN’OSSESSIONE, non a caso, tornata tristemente d’attualità sia in Europa che in America, nelle politiche migratorie ma, non a caso, anche in quelle che governano la produzione culturale. Infine, nelle varie tappe del lavoro della Montezemolo, da Lucciole (2011) a Tracce (2012) a The 3 Ecologies (2015), il rigore della ricerca antropologica si fonde sempre con la libertà della pratica artistica, a testimoniare che non esiste mai un altro, ma sempre e solo una relazione con i suoi conflitti. Qui sta il senso politico di un lavoro artistico che Anna Cestelli Guidi ci restituisce in tutta la sua complessità.