Al Teatro alla Scala di Milano prosegue la stagione della memoria e dell’autocelebrazione. Dopo il recupero della Traviata del 1990 di Liliana Cavani, del Don Giovanni del 2011 di Robert Carsen e della Bohème del 1963 di Franco Zeffirelli, è la volta di Die Entführung aus dem Serail di Mozart nell’allestimento ideato nel 1965 per il Festival di Salisburgo da Giorgio Strehler e approdato alla Scala nel 1972. Traviata e Bohème, a 27 e 54 anni dalla creazione, forti dell’atemporalità del kitsch, mantengono intatta la loro naturalistica decoratività: non si può chieder loro nulla ora più di allora. Don Giovanni, a 6 anni dal debutto, avanguardistico e spericolato nell’impianto metateatrale, produce ancora grande stupore.

Il 52enne spettacolo di Strehler, sulla cui genialità tutto o quasi è già stato detto, merita una riflessione degna del suo creatore: lucida, spassionata, scevra di cliché. Il carattere compartimentato del Singspiel, che oppone recitativi secchi e arie, e la stereotipia evidentissima del libretto di Gottlieb Stephanie il giovane, ispirato a un plotone di testi francesi, inglesi, tedeschi e italiani sul tema del turco generoso, hanno indotto Strehler a giocare una doppia strategia.

L’azione, in verità esilissima, dei dialoghi parlati viene modulata nei toni farseschi della commedia dell’arte (che poi fa capolino in scena con una maschera). L’effusione degli affetti, di maniera metastasiana, in carico ai numeri chiusi (12 arie, 4 duetti, 2 cori, 1 terzetto, 1 quartetto, 1 lied, 1 romanza, 1 vaudeville) è affidata all’oscurità: quando iniziano a cantare spiegatamente, i solisti avanzano verso un corridoio d’ombra prodotto nel proscenio, che rende i loro volti invisibili e la loro gestualità fortemente attenuata. La capriola intellettualistica dell’animare il parlato e imbrigliare il cantato, lasciando al pubblico la facoltà di usare selettivamente vista (per l’azione, costellata di silenzi pantomimici e di grugniti) e udito (per l’effusione, sottratta alla luce), funziona perfettamente per un pubblico colto e storicamente informato.

Ma il pubblico occasionale e il pubblico giovane non rischiano di sentirsi respinti quando si vedono negare la fisicità performativa del canto con cui spesso identificano il teatro d’opera? In verità questo allestimento, oggi come nel 1965, non avrebbe alcun senso senza la direzione strabiliante di Zubin Mehta, che restituisce l’opera come in una finissima delibazione di timbri e armonie, sottolineandone con grande intensità i sinfonismi e le rêveries sentimentali spintamente preromantici.

Il cast risulta piuttosto modesto, in particolare nel risolvere i melismi impervi della partitura. La Konstanze di Lenneke Ruiten è senza colore e dagli acuti sempre spinti. Il Belmonte di Mauro Peter è generoso ma sgraziato. Flebili Maximilian Schmitt in Pedrillo e Cornelius Obonya in Selim. L’Osmin di Tobias Kehrer si incaglia negli acuti. Spicca su tutti la Blonde di Sabine Devieilhe per colore, agilità e dinamica. Repliche fino al 1 luglio.