La ripartenza del calcio del calcio italiano, che rischia di essere lenta come le ripartenze dal basso del Milan di Giampaolo, dovrebbe riportare sotto i riflettori quella che è la tragica situazione economica del pallone: nascosta dal velo di assurde dichiarazioni sulla tutela della salute pubblica, cui non crede più nessuno. Dopo avere partecipato in mattinata all’audizione in Senato e poi avere discusso in videoconferenza nel pomeriggio con il suo omologo alla Salute e con i vertici del calcio italiano, il ministro dello Sport  Spadafora ha comunicato che ci vorrà ancora qualche giorno per sapere se gli allenamenti delle squadre di calcio potranno ricominciare il 4 maggio, o poco dopo. Condizione imprescindibile perché il campionato di Serie A riparta entro giugno e finisca entro agosto, come vuole la Uefa. Il tempo stringe.

Serie A, Uefa, coppe europee, di questo si parla. Non certo del movimento del calcio italiano, o del pallone come pratica sportiva per i più piccoli. C’è infatti lo sport e poi c’è il calcio, qualcosa di completamente diverso. O meglio, c’è lo sport, poi c’è il calcio e poi c’è la Serie A, un prodotto commerciale che da solo agisce con percentuali mostruose sul valore di produzione del calcio tutto, dell’intero comparto sportivo nazionale e del sistema spettacolo del paese. La Serie A è un prodotto dell’industria culturale che – derivando i numeri dagli ultimi annuari Siae – incide per il 35% sull’intero volume generato dallo spettacolo italiano, rispetto al 10% del cinema e al 7% del teatro. Ma non è tutto oro quello che luccica, anzi. La verità è che la Serie A da un alto non ha la forza per proseguire, e dall’altro non può permettersi di fermarsi.

Facciamo due passi indietro. Il primo ci riporta ai protocolli medico sportivi per la ripresa delle attività agonistiche. Con la “gradualità” richiesta dal ministro, con la fase due del 4 maggio potranno ricominciare gli allenamenti per gli sport individuali, anche olimpici (atletica e nuoto, ad esempio), ma non quelli di squadra, tra cui il pallone. Il secondo è che, quando anche ricominciassero, ci sono tutta una serie di obblighi, dal distanziamento sociale ai controlli, cui solo i club della Serie A potrebbero ottemperare dati i costi. Bisogna infatti che non solo gli atleti ma anche tutti i dipendenti del club interessati restino isolati per settimane, dormendo in camere singole, viaggino a determinate condizioni e si sottopongano a continui controlli. E questo se lo potrebbero permettere solo in Serie A, visto che nelle serie minori faticano a pagare gli stipendi.

Poi, se anche il protocollo ora in discussione fosse emendato e alleggerito, ci sarebbe da considerare l’opportunità politica e sociale dell’obbligo di due tamponi a settimana per tutti i dipendenti, tra calciatori e altri saremo quasi sul centinaio di persone per ogni squadra, mentre nel resto del paese si muore per la mancanza degli stessi tamponi. Ma ovviamente della tutela della salute pubblica non è mai interessato nulla a nessuno. Qui si cerca solo di tutelare la salute economica del calcio, che è pessima. Ogni decisione presa finora non dipende infatti minimamente dal benessere dei dipendenti dei club, calciatori o massaggiatori che siano, quanto dal proteggersi contro gli eventuali danni a loro recati. Né tantomeno dal presunto interesse economico che per il paese deriverebbe dal pallone, quanto piuttosto dal disperato bisogno di soldi che ha il calcio stesso.

Per capirci, fino a due giorni fa lo stesso mondo della Serie A era diviso al suo interno tra chi voleva ripartire – per ragioni di guadagni e di posizione di classifica – e chi voleva chiuderla qui con il campionato – per risparmiare su qualche mensilità e evitare la retrocessione. Poi, pochi minuti prima della riunione della Lega di Serie A di martedì mattina, è arrivata una bella lettera delle televisioni – Sky in testa, oltre a Dazn e Img – che annunciava che avrebbero richiesto i danni per la mancata trasmissione delle partite.

Non potendo evitare di pagare le ultime tranche della stagione in corso, hanno chiesto uno sconto sul prossimo campionato di 210 milioni se questa stagione fosse stata portata a termine, e di 440 milioni se non lo fosse stata. Apriti cielo. Improvvisamente tutta la Serie A si è trovata compatta nel volere ripartire il più presto possibile.

Il pallone si vanta infatti di un valore di produzione di 3,5 miliardi di euro l’anno: 4,7 miliardi cui vanno tolti gli 1,2 miliardi che ogni giorno i presidenti benefattori si peritano di ricordare versano in tasse all’erario italiano. Non solo l’Italia produce il 12% del Pil del calcio mondiale, come emerge dall’ultimo report della Figc, ma attenzione, il calcio italiano contribuisce per un percentuale pari al 7% alla crescita del Pil del paese Italia.

L’impatto socio-economico e il valore generato dal calcio sono valutati inoltre in 1,2 mld per la salute, 1 mld per la socialità e 742 milioni per l’economia, scrive la Figc. Tra commercio, manifattura e servizi sportivi si dà lavoro a circa 40mila aziende, e a poco meno di un centinaio di migliaia di persone nel paese, si trova scritto in un altro report. Grida di giubilo e petti battuti dai vari presidenti della Serie A, che a questi numeri contribuisce ovviamente con percentuali mostruose.

Che bravi questi padroni, che meraviglioso indotto che generano, quante bocche che sfamano, come impedirgli di continuare a fare del bene? Eppure, se uno continuasse a leggere lo stesso report della Figc troverebbe scritto che l’indebitamento aggregato dei club ha raggiunto i 4,27 miliardi di euro (solo in Serie A è di 3,9 miliardi).

Quindi in realtà i debiti superano i ricavi. E forse lo stato di salute dell’industria del pallone non è così florido. Anzi. La pandemia economica del pallone, che in questi anni è stata visibile nei continui fallimenti di società più o meno note, nelle alchimie finanziarie messe in atto per permettere l’iscrizione delle squadre ai vari campionati, emerge ancora di più nel disperato bisogno che hanno adesso i club di Serie A di riprendere a giocare. Pena la loro scomparsa.

Gestendo i bilanci con le regole della più spericolata finanza, i presidenti di Serie A sono infatti soliti riempirli con i presunti futuri guadagni che deriveranno non solo dai diritti tv – che in Italia ossigenano il 50-60% dei ricavi – ma anche dalle future trattative di calciomercato.

Poi un giorno succederà come è accaduto in questi giorni con il petrolio, con squadre che non sanno più dove mettere i barili con dentro i loro giocatori e falliscono. Anzi, in realtà è già successo, con il fallimento del Parma nel 2015 per esempio. Considerato da tutta la stampa sportiva una società modello, prima di portare i libri in tribunale quel Parma aveva in rosa quasi trecento giocatori, tanti quanti i barili di petrolio stipati in Oklahoma che nessuno vuole più comprare. E il disastro dei future del calcio prima o si abbatterà sul movimento a livello sistemico.

A questo va aggiunto che la Uefa ha fatto chiaramente capire che se non si finiscono i campionati non ci si iscrive alle prossime coppe. Altro ossigeno economico indispensabile. Per questo Olanda e Belgio, cui delle coppe interessa oggettivamente poco, hanno già annullato la stagione in corso e riprenderanno l’anno prossimo. Mentre dall’altra parte Germania e Inghilterra hanno annunciato che riprenderanno il prima possibile: probabilmente il 9 maggio la Bundes e il 4 giugno la Premier.

I ricavi dai diritti televisivi e commerciali delle prossime coppe europee sono soldi di cui i club italiani non possono fare a meno, avendoli già impegnati al monte di pietà. Ecco perché l’improvvisa necessità di voler ripartire, a tutti i costi e il prima possibile. Anche a nome di coloro che fino a ieri preferivano di no. Anche a costo di giocare in un mese le ultime dodici giornate più i quattro recuperi ancora da disputare: centoventiquattro partite in totale, a ritmi folli e in una stagione estiva non certo favorevole.

Ecco perché la tragicomica polemica in corso tra il presidente della Figc Gravina e il ministro Spadafora, al ritmo di un surreale dialogo – “cominci lei?”, “no, vadi lei” – che ricorda quello tra Fantozzi e il ragionier Filini prima della famosa partita di tennis. Il problema è che qui il primo che si prende la responsabilità di fare ricominciare gli allenamenti, e poi il campionato, si prende anche e soprattutto la responsabilità economica, civile e magari penale, degli eventuali danni.

Cosa succederà davanti alla prima positività riscontrata? Danni che sono quantificati ovviamente in termini di salute economica, dato che, a questo punto è evidente, nessuno ai piani alti del calcio è interessato a quella pubblica.

Detto ciò, al di là dei battibecchi tra Spadafora e Gravina, la riapertura degli allenamenti e quindi la ripartenza del calcio italiano sarà inevitabile. Anche solo perché i proprietari della squadre di calcio di Serie A hanno qualche interesse in altri settori cruciali dell’economia italiana, e il loro potere di ricatto è gigantesco.

Una volta che si saranno parati contro eventuali responsabilità derivate dai danni recati alla salute, potranno continuare a gonfiare i bilanci mentre si presentano come i benefattori del paese. Intanto tra reclami, denunce e ricorsi, provenienti dalle serie minori, possiamo tranquillamente prepararci a un’estate calcistica più allucinante di quelle di calciopoli. Notti magiche di un’estate italiana in cui si inseguiranno non tanto i gol, ma un fiume di sentenze e carte bollate. Better Call Saul, forse solo un avvocato con il pelo sullo stomaco di Saul Goodman si troverebbe a suo agio in mezzo alle nefandezze dei presunti benefattori del calcio italiano.