Nell’aula del Senato impazzita, nel fragore di un torneo nel quale ormai conta solo portare a casa il trofeo, il boccino, ancora una volta, è nelle mani di Matteo Renzi. È in buona misura dal voto dei suoi 17 senatori che dipende la sorte del ddl Zan. È da quel voto segreto che dipenderà il passaggio degli emendamenti che, se approvati, costringeranno il testo a passare di nuovo per la Camera.

Ieri in aula Renzi, fresco di iscrizione nel registro degli indagati per finanziamento illecito insieme al manager Lucio Presta, ha ripetuto il suo leitmotiv: l’accordo è necessario per far passare una legge la cui importanza ha difeso a spada tratta: «Una legge contro l’omotransfobia era passata alla Camera già nel 2013 ma al Senato non ci sono stati i voti. Come pensate che si siano sentiti in questi anni quei ragazzi che la legge voleva difendere? Ora siamo a un passo, ma se il Senato diventa sede del confronto tra gruppi di ultrà non portiamo a casa il risultato, perché è inutile nascondersi che nel voto segreto si rischia».

Dunque il leader di Iv rivolge a tutti un appello: «Non basta la mediazione sui contenuti. Ci vuole un patto politico per approvare la legge modificata in 15 giorni alla Camera». Il partito di Renzi, comunque, nonostante critiche e appunti non vota la pregiudiziale di costituzionalità, a riprova dell’intenzione di non silurare comunque il provvedimento.

Il leader di Iv prova così a piazzarsi in una posizione quasi inattaccabile. Se grazie a un accordo in extremis si arrivasse a una mediazione ne rivendicherebbe la paternità. Impugnerebbe il suo voto a favore del provvedimento e alzerebbe il calice se invece la legge passasse senza emendamenti, eventualità poco probabile dal momento che il verdetto del voto segreto è nelle mani dei senatori renziani, che lontano delle luci della ribalta saranno probabilmente molto meno favorevoli al testo, ma anche di un gruppo di dissidenti disseminato nelle file del Pd, del M5S e del Misto di dimensioni non trascurabili. Se infine, come nell’ipotesi di gran lunga più probabile, la legge uscisse a pezzi e forse definitivamente affossata dall’aula di palazzo Madama, lo stesso Renzi ne addosserebbe le colpe al Pd e al suo rifiuto di trattare.

Il fronte a sostegno della Zan aveva scommesso sull’impossibilità, per Renzi, di muoversi così a tutto campo, pensando che neppure lui avrebbe osato fare fronte comune con i reazionari alla Pillon, la destra nemica giurata della legge. Non era un calcolo infondato. Iv non avrebbe potuto davvero permettersi il civettamento ambiguo di questi giorni con il fronte anti Zan se a distinguere quel fronte fossero state solo le posizioni di Pillon. Ad aprirgli la strada è stato l’emergere di critiche da sinistra al testo all’esame del Senato, arrivate in parte da alcuni costituzionalisti e soprattutto da femministe le cui posizioni, nonostante l’impegno a votare secondo la disciplina di partito, sono presenti sia nel Pd che nel M5S. Senza quelle prese di posizione, non assimilabili a quelle di Pillon o di FdI, l’ex premier avrebbe avuto le mani legate o almeno avrebbe avuto agibilità di movimento molto limitata.

In secondo luogo, e con l’abituale spregiudicatezza, il capo di Iv ha giocato sulla competizione tra Lega e FdI e sulle divisioni striscianti nella destra. Se il partito di Giorgia Meloni ha mantenuto le posizioni di contrasto a tutto campo, quello di Salvini, partito con uno sfrontato ostruzionismo in commissione, si è spostato, almeno a parole, su posizioni più possibiliste. In ballo non c’è solo e neppure soprattutto la Zan, naturalmente. La campagna serve come banco di prova per un avvicinamento che darà i suoi frutti al momento di eleggere il nuovo capo dello Stato, la vera partita che orienta i partiti già da ora, e forse anche in seguito. Di fatto, però, Renzi ha raggiunto un risultato comunque prezioso staccando su uno dei fronti per la destra più nevralgici ed essenziali la linea della Lega da quella di FdI.

La sfida è appena cominciata e aperta a ogni esito. Ma la possibilità che, per la seconda volta in pochi mesi, il fronte Pd-5S debba scoprire di aver sottovalutato Renzi è concretissima.