Ciò che sulla Sardegna è in parte presente nell’immaginario collettivo si potrebbe sintetizzare parafrasando un vecchio adagio di crociana memoria: se Napoli – o, per sineddoche, il Meridione – era un paradiso abitato da diavoli, l’isola sarebbe forse un paradiso abitato da banditi. Per noi che la guardiamo dal continente, l’identità di questa regione, che così si può definire solo in termini strettamente amministrativi, pare costantemente attraversata da questo dualismo forzato che divide abissalmente natura e cultura.
La prima, splendida e benevola anche se selvaggia e terribile, ne fa il paradiso di vecchi e nuovi colonialismi: dalla pastorizia al life style cinepanettoniano di un’Italia ricca, abbronzata e sempre a caccia di intrattenimento, fino alla recentissima consacrazione a oasi Covid free per i fortunati possessori di seconde case. Dall’altro lato, il popolo sardo, rinchiuso in stereotipi che lo vogliono antiquato, duro e tacito, quando non esplicitamente ostile, presenza quasi silenziosa sullo sfondo di una rappresentazione che vede modernità e banditismo come poli opposti. Tuttavia, i tempi sono maturi in Sardegna per guardarsi non più con gli occhi dell’altro, ma con i propri, si legge nelle prime pagine di Filosofia de Logu. Decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna, edito da Meltemi e a cura di Sebastiano Ghisu e Alessandro Mongili (pp. 232, euro 20).

UNA RACCOLTA DI SAGGI caratterizzata da molteplici approcci teorici, punti di vista politici, biografie intellettuali – segnate, spesso, dalla diaspora: dalla storiografia all’architettura, passando per la filosofia, si lavora compiendo un duplice movimento intorno all’identità di un’isola difficile da collocare, tra Italia, Mediterraneo e l’Europa degli indipendentismi. Un movimento di decostruzione di tutto ciò che sulla Sardegna è stato detto e sentito, poiché tendenzialmente detto da altri e altrove – i cliché sulle donne belle come Veline oppure misteriose e difficili da conquistare, il ruolo del Regno di Sardegna nel processo di creazione dello Stato-nazione italiano, le ferite profonde del paesaggio turistificato.

MA ANCHE UN MOVIMENTO di (ri)costruzione collettiva di una pluralità di identità, mobili e politiche, messo in atto attraverso il processo stesso di scrivere una cultura che ha una propria lingua, ma ha sempre fatto così fatica a trovare parole – o meglio, spazi di enunciazione – in cui rappresentarsi.
Rifuggendo stereotipi altrui e narrazioni autocelebrative altrettanto irreali, si traccia una strada diversa per riappropriarsi della Sardegna e da quella guardare al mondo. Riportando a casa Gramsci – forse il più famoso e amato dei sardi – si propone un modo intelligente ed interlocutorio di pensare le relazioni di subalternità – economica, geografica, di genere – che (ri)apre il cammino, anche sulla terraferma, per ripensare e attualizzare la Questione Meridionale, l’identità nazionale e le infinite, incessanti insorgenze delle culture subalterne.