«Nel socialismo vi è ancora una scintilla viva. Per scorgerla bisogna separare nettamente l’idea guida del socialismo dal suo guscio concettuale, radicato nel terreno del primo industrialismo».

Da quando Axel Honneth – il direttore del celebre Istituto di ricerche sociali di Francoforte, l’autore di Lotta per il riconoscimento e uno dei più acuti filosofi contemporanei – ha invitato a rimettere al centro dell’agenda culturale e politica «l’idea di socialismo» con il suo libro del 2015 (tradotto in italiano nel 2016), la sinistra politica europea, specie quella di estrazione socialdemocratica, ha inanellato una sconfitta dietro l’altra. Ma per l’allievo di Habermas, in Italia per una serie di conferenze proprio nei giorni seguiti al terremoto politico del 4 marzo, gli ultimi risultati elettorali non hanno fatto altro che confermare l’urgenza di ritornare alle origini: di riaprire gli archivi dimenticati della storia del movimento socialista.

«Il nostro compito oggi è quello di non concedere spazio al pessimismo e di sforzarci di trovare vie d’uscita alla profonda crisi in cui versa il socialismo. Una crisi che si manifesta non solo nella perdita di consensi, ma nel fatto che si sono allontanati dai partiti socialisti i ceti subalterni. Oggi sono i movimenti populisti, anche di carattere nazionalista e razzista, che sembrano essere divenuti i portavoci delle ansie e dei bisogni di quegli stessi ceti».

Da dove dovrebbero ripartire i partiti di sinistra per invertire la rotta?

Direi che bisogna partire dalla comprensione di un dato: le riforme avviate negli anni Novanta dal Labour Party di Blair o dalla Spd di Schröder, in particolare nel mercato del lavoro, sono state avvertite come un tradimento di conquiste sociali ottenute in decenni di lotte. I membri della classe operaia e del proletariato dei servizi si sono sentiti abbandonati e lasciati soli. Anche perché quelle riforme venivano presentate non come misure temporanee, imposte da necessità economiche, ma come conquiste: come la nuova visione della socialdemocrazia. Oggi la sinistra dovrebbe avere il coraggio di rendere nuovamente plausibile l’idea di una forte regolazione politica dell’economia e della finanza. Rimettere al centro il valore dei beni pubblici: ospedali, scuole, piscine comunali ben attrezzate, spazi pubblici sottratti al consumo. Pensare ad una nuova politica sociale delle abitazioni che faccia fronte alla grande emergenza abitativa, sul modello della Vienna rossa degli anni 20. Avviare una profonda riflessione culturale sul significato cruciale della scuola pubblica, in quanto organo essenziale per la costruzione delle basi della democrazia, tanto nell’economia quanto nella sfera politica.

Quale era la visione originaria del socialismo?

Tornando a leggere i testi del primo socialismo e di Marx, mi sono reso conto che il caposaldo del primo movimento socialista non era tanto l’idea di uguaglianza, quanto una visione della libertà cooperativa e sociale. Un’idea che voleva sfidare la concezione individualistica e atomistica di libertà che si era affermata con l’espansione dell’economia di mercato capitalistica. È l’idea che la mia libertà è dipendente da quella dell’altro, può esistere solo in un agire l’uno-con-l’altro, persino in un agire l’uno-per-l’altro. A mio modo di vedere, è importante ripensare il socialismo alla luce di questa idea, ma anche poi differenziarla dal collettivismo, presente invece nelle tendenze comuniste, anch’esse sorte con Marx. Nell’idea di libertà cooperativa è sempre in questione la libertà individuale e le condizioni della sua realizzazione, ossia le interazioni solidali con la libertà dell’altro. In una concezione collettivistica, come quella fatta propria dal comunismo, in primo piano è invece la libertà del collettivo. E questo porta con sé un’idea centralistica, perché sulle finalità condivise all’interno del collettivo, decideva solo una minoranza, ossia il partito.

A suo avviso erano presenti però anche dei limiti nella tradizione del socialismo…

Ci sono tre tare teoriche che hanno pesato negativamente sull’idea di socialismo, facendogli perdere progressivamente persuasività. In primo luogo si dava per assodato che il proletariato fosse il soggetto rivoluzionario, e che la teoria dovesse essere semplicemente il suo organo riflessivo. In secondo luogo, c’era una concezione fortemente deterministica del progresso, per cui il socialismo sarebbe succeduto al capitalismo in modo necessario e in una forma già prefigurabile. In terzo luogo, c’era un’eccessiva concentrazione sulla sfera delle attività economiche, quale unico spazio di realizzazione della libertà sociale. La conseguenza è stata quella di non accordare alcun valore indipendente alla democrazia politica, ridotta tendenzialmente a semplice sovrastruttura dell’economia. Questo ha determinato una chiusura teorica gravida di conseguenze nei confronti delle richieste normative di ulteriori processi di democratizzazione della politica e di estensione dei diritti fondamentali. Oggi non possiamo più pensare il socialismo senza due irrinunciabili insegnamenti del liberalismo: il primo è l’idea che il centro dei nostri sforzi, anche degli sforzi socialisti, deve rimanere sempre la libertà del singolo; l’altro è il significato irrinunciabile dei diritti fondamentali di libertà.

Il socialismo però non si lascia riassorbire nell’orbita del liberalismo, anche perchè non rinuncia all’idea di una trasformazione sociale della sfera economica.

Il socialismo è sempre partito dall’assunto secondo cui determinate forme di proprietà, in particolare la proprietà privata dei mezzi di produzione, impediscono la realizzazione della libertà sociale. E oggi è del tutto evidente che l’accumulazione di capitale nella sfera della produzione e della finanza, mina qualsiasi processo di governo democratico della società. Tuttavia, a mio modo di vedere, il compito più importante oggi consiste nel revocare l’equiparazione tra economia di mercato e capitalismo, e riprogettare delle forme alternative di utilizzo del mercato.

Il socialismo è rimasto troppo a lungo intrappolato nell’idea che l’unica valida alternativa al mercato capitalistico fosse un’economia pianificata in modo centralizzato. Questa idea ha atrofizzato la fantasia istituzionale del movimento socialista. Innanzitutto esistono sfere elementari della proprietà, che riguardano l’abitare, il vestirsi, oggetti primari che concernono la persona, a cui non possiamo rinunciare. E io non trovo in nessun modo scandaloso parlare di una certa proprietà privata dei mezzi di produzione.

Ma al di là di ciò, si è sempre riflettuto troppo poco sulla grande varietà di forme alternative alla proprietà privata. Non esiste solo la proprietà collettiva dello Stato, ma anche forme di proprietà cooperative, familiari, comunitarie. Pensare secondo dualismi è sempre improduttivo. I dualismi bloccano la nostra fantasia e il nostro sperimentalismo nel concepire modelli di economia politica alternativi.

Dal 1996 è alla guida dell’Istituto di Ricerche Sociali di Francoforte, un nome che evoca passaggi cruciali della storia culturale del Novecento. Di cosa si occupa oggi l’Istituto da lei diretto?

Da quando sono diventato direttore dell’Istituto ho voluto recuperare l’idea originaria di Horkheimer e Adorno, ossia quella di focalizzare le ricerche interdisciplinari su un tema centrale. E mi è sembrato particolarmente indicato concentrare i nostri sforzi sugli effetti paradossali prodotti dal capitalismo neoliberale.

L’esempio più lampante è quello delle riforme di flessibilizzazione del mercato del lavoro, legittimate come strumenti di estensione dell’autorealizzazione individuale nel lavoro, ma rovesciatesi in nuovi dispositivi di disciplinamento e di repressione: nei nuovi imperativi sociali della mobilità e della flessibilità.

L’idea di una teoria critica della società sta o cade con la possibilità di individuare un potenziale critico nella società, che fa segno verso il trascendimento delle attuali forme di dominio. Quali sono oggi i potenziali a cui riallacciarsi?

È una questione difficile, proprio perché oggi massive forme di disprezzo, di umiliazione, di invisibilizzazione, patite in particolare dal proletariato dei servizi e dalla classe lavoratrice, trovano un megafono nelle forze nazionalistiche e populistiche di destra. Questa sofferenza sociale rimane comunque il potenziale a cui bisogna ricollegarsi.