Le stellette della critica internazionale pubblicate ogni giorno da Screen International danno per ora in testa negli indici di gradimento-Palma Inside Llewin Davis, la ballata folk dei fratelli Coen, seguito a distanza ravvicinata da A Touch of Sin di Jia Zhangke. Il primo week end è alle spalle, la pioggia (sembra) pure, e il gioco delle tendenze lanciato dal primo giorno impazza. Quali sono le caratteristiche di Cannes 66? Adolescenti, sesso, fantasmagorie (di cinema), sentimento contemporaneo, l’aria (tempestosa) del tempo attraversa gli schermi, e trasfigura nell’immaginario mutazioni traumatiche e politiche denigratorie.
Valeria Bruni Tedeschi è l’unica regista donna in gara, un’assenza quella delle cineaste nel concorso di Cannes che conferma la scelta molto contestata lo scorso anno, con commenti polemici anche nell’edizione in corso. Ed è anche un altro dei titoli targati Francia, pure se è molto italiano questo film, coi suoi legami a Torino e dintorni, da dove arriva la regista, e la lingua che parlano in famiglia e i rapporti mai finiti del tutto.
Un Chateau en Italie – nelle nostre sale il prossimo ottobre distribuito da Teodora – ritrova ancora una volta la prima persona che è stata finora il centro dei suoi film – È più facile per un cammello; Attrici – e non solo perché Bruni Tedeschi ne è inoltre protagonista. Le sue storie si muovono infatti negli universi che conosce bene, e a cui appartiene, ovvero l’alta borghesia coi doppi cognomi e il mondo del cinema, senza presunzione, o generico giudizio, ma col tono seriamente leggero anche nei dolori, come quando parlando con la governante dell’antica casa dice «i ricchi piangono».
Sulle note di Rita Pavone in La Pappa col pomodoro e di Fred Buscaglione seguiamo Louise (Bruni Tedeschi) , ex attrice («ho preferito la vita») nei suoi spostamenti tra Parigi e il Piemonte, a Castagneto Po, dove è il sontuoso maniero di famiglia il cui mantenimento è divenuto troppo costoso per loro. La madre sospira di fronte all’ostinazione dei figli a non vendere mentre il sindaco (Silvio Orlando) propone di aprirlo ai cittadini una volta alla settimana. Ludovic (Filippo Timi), l’amato fratello di Louise è malato terminale, ha l’Aids, l’idea di estranei nelle sue stanze non gli piace. Intanto Louise ha incontrato Nathan (Louis Garrel) attore anche lui in crisi, figlio di un regista con cui lavora (e che ci prova con Louise), i due si rincorrono, si amano, si lasciano. Poi c’è Serge (Xavier de Beauvois), l’ex di Louise ora alcolista, divenuto troppo molesto dopo che ha gridato a tutti che Ludovic stava male

. La mamma Marisa, allora può essere anche la «vera» madre della regista come è (Marisa Borini) e nelle parole del sindaco di Castagneto, figlio di operai, per quella famiglia da cui dipendeva l’intera zona, ci portano alle storie della grandi famiglie capitaliste e ai loro complessi rapporti col territorio (pensiamo anche a Agnelli), alla fine di un sistema e alle nuove economie, saranno i russi o forse i cinesi a comprare il castello con la cameriera dentro. [do action=”citazione”]Le corrispondenze «reali» a cominciare dal cognome, Bruni Tedeschi, che nel film diviene Rossi Levi, alla storia con Louis Garrel, nella scrittura complice della stessa Bruni Tedeschi insieme a Noémie Lvovsky e Agnès de Sacy «saltano» dall’autobiografia all’autofinzione in cui l’elemento narrativo permette la libertà della commedia, del riso e del pianto[/do]

Lei però non ci racconta questo, sta dall’altra parte, ne è il contrappunto. Ma non è una ostentazione di narcisismo la sua e tanto meno di autocompiacimento, è la scrittura sul filo teso tra partecipazione e distanza che sa trasformare un paesaggio privato nel piacere di un cinema vitale.
Louise passa dall’asta con Omar Sharif che sorride alla madre, dove vendono un Brugel a due milioni di euro – ma lei cercherà di riaverlo indietro – a Napoli perché in una chiesa c’è una sedia santa che aiuta le gravidanze, su cui si incolla sfidando l’ira delle monache che non la vogliono perché non è sposata.

Fragile, spaventata, ostinata, si prende in giro – «sono troppo vecchia per te» dice a Nathan in uno dei primi incontri – confessa debolezza e desideri frustrati – «voglio un figlio» – paranoie e fallimenti, goffaggini come litigare coi poveri a cui una volta a settimana distribuisce i pasti caldi. Si espone, e sovraespone, e lo fa con amoroso dolore che accartoccia quando il fratello muore, o stupore delicato, e un salto nel futuro, di fronte al grande albero che rimpiazza quello vecchio e che il fratello (a cui è dedicato il film) aveva fatto arrivare da lontano sapendo forse di non esserci più. E la sua Parigi, e l’Italia anche a differenza del chiasso sorrentiniano, fanno vibrare la corda intima dell’emozione, perché appunto lei è là, non si sottrae né si nasconde dietro a giudizi pomposi.

È là e come una maga disegna le traiettorie dei suoi sentimenti col sorriso candido di una ragazzina, goffa, capricciosa, spaesata, emozionalmente maldestra. E il via vai di creature che incrociano i suoi passi, sono affettuosamente introdotti anche quando molesti, come il maggiordomo vegliante e onnipresente distrugge l’intimità di un ritorno passionale, o il prete Pippo Delbono – che elogia la sofferenza. E spavalda e discreta Louise va avanti, e con lei Valeria Bruni Tedeschi, che nelle variazioni di una stessa storia sa trovare a ogni passaggio una vitalità di cinema sempre diversa.