Cos’hanno in comune una videocamera e uno skateboard? A prima vista nessuno: la videocamera è un artefatto tecnologico composto da un corpo ottico, circuiti stampati, batterie al litio e plastica; lo skate null’altro che sette strati di acero canadese, alluminio, ruote di poliuretano e viteria. Eppure tra questi due oggetti c’è uno stretto rapporto, legato al ruolo che le tecnologie della visione hanno avuto nel creare e diffondere lo skate e il suo immaginario.

Ma la relazione tra lo skateboard e la videocamera non si esaurisce in questo rapporto, va più in profondità e caratterizza l’essenza di questi due oggetti. Tanto una videocamera quanto uno skateboard sono due medium. Ovvero due oggetti attraverso cui costruiamo la nostra relazione con il mondo e la realtà che ci circonda.

La videocamera produce immagini, ovvero la forma concreta e maneggiabile che assumono i nostri sguardi sulle cose. A loro volta le immagini, connettendosi le une alle altre grazie al montaggio, producono pensieri. Il cinema è pensiero in forma d’immagini in movimento. Lo skateboard produce spazi attraverso l’interazione tra diversi ambienti e il corpo mediata da una protesi tecnologica, la tavola. E lo skateboarding è un modo per leggere e scrivere l’ambiente che ci circonda, in accordo o in polemica con le regole e le grammatiche che ne sovraintendono la fruizione. Anche lo skate, come il cinema, è una struttura di pensiero; pensiero dello spazio in forma di gesto tecnico e atletico.

A Taste of China è l’esempio perfetto di come una videocamera e uno (tanti) skateboard possano raccontare l’altrove per eccellenza, la Cina appunto. Si tratta di un documentario corto che racconta del primo gruppo di skateboarders italiani che ha intrapreso uno skatetrip in Cina, ovvero un viaggio in cui lo skateboarding è la scusa per visitare un luogo e viceversa. Girato nell’agosto del 2013 tra Pechino e Shangai, A Taste of China è prodotto da Chef Family e Boneless Film ed è visibile da oggi on line dopo alcune presentazioni in diverse città d’Italia (a Roma, al cinema America Occupato e a Vicenza). Chef Family è una crew di skaters nata nel 2008 a Milano e che oggi conta membri in tutto il mondo.

«Lo skateboarding è uno sport abbastanza dispendioso», racconta René Olivo, uno dei veterani della crew, sotto le arcate della stazione di Milano, «quindi abbiamo deciso di metterci insieme e creare il nostro materiale, per renderci autonomi e abbattere i costi».

Cresce uno, crescono tutti

La parola famiglia usata per descrivere una crew di skater potrebbe suonare altisonante a chi non sa cos’è lo spirito dello skateboarding, ma nel caso di Chef questa è davvero la parola giusta. Girando con loro in un pomeriggio passato tra Mc – la stazione centrale di Milano, spot storico dello skateboarding italiano – e le terrazze di Gratosoglio, nel cuore della periferia sud, la sensazione è davvero quella di avere di fronte una famiglia allargata, dove gli skater più esperti si prendono cura dei più piccoli e tramandano loro la passione per questo sport. C’è scambio costante e la competizione, quando la avverti, è sempre positiva, sana: se cresce uno, crescono tutti.

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È in questo ambiente che nasce A Taste of China. «L’idea di un viaggio in Cina è nata 4 anni fa, ma solo all’inizio del 2013 siamo riusciti a organizzarlo», dice Diego Garcia, che insieme a René e ad Andrea Ciniselli è uno dei fondatori di Chef. «È per questo che abbiamo scelto il documentario per raccontare questa esperienza – continua René – . Di solito il materiale che giriamo finisce in progetti che hanno più a che fare con lo skate, ma qui era una situazione diversa. Non volevamo raccontare solo i tricks, ma il viaggio in sé».

Così, nel documentario, lo skateboarding si mescola alle impressioni sulla Cina e alle voci dei ragazzi, ed è attraverso questi elementi che il film racconta il viaggio. Da questa interazione nasce la cronaca di una doppia esplorazione: il viaggio come esplorazione del Paese e lo skate come esplorazione della città e come mezzo per entrare in contatto con le persone.

Perché lo skateboarding, in quanto pensiero dello spazio, è, sempre, anche esplorazione di esso. E siccome lo skate è una cultura prevalentemente urbana quello spazio è spesso lo spazio della città che, nelle sue varie forme, è una presenza fissa nelle immagini del film. «In tutti gli scatti e nei montaggi che facciamo cerchiamo sempre di avere un filo conduttore – spiega ancora Garcia , e la città è sempre presente. Ogni nostro progetto, che sia un documentario o il classico video di skate, deve sempre avere un’idea alle spalle, che gli dia senso e stile. Troviamo piuttosto noiosi i montaggi di soli tricks, senza alcuna idea dietro».

La città inaspettata

Questa attenzione per le forme della città e per gli spazi urbani è ciò che accomuna chiunque sia mai andato in skate. Quei pochi centrimetri di tavola che separano e allo stesso tempo uniscono lo skater alla città gli donano uno sguardo altro. Ciò che a noi appare banale, per uno skateboarder è invece ricco di significati: un’imperfezione nell’asfalto rappresenta il limite tra ciò che si può e ciò che non si potrà mai fare; un corrimano, una panchina, un muretto smettono di essere semplice arredo urbano e invitano a tracciare linee che connettono tra loro, e in modi inaspettati, gli elementi della città.

Per una crew di skater abituati a portare questo sguardo in giro per le strade di città sempre meno vissute e più consumate, l’incontro con una società, quella cinese, che le strade le vive in maniera viscerale ha la forza di uno shock.

Il racconto di questo shock è uno dei momenti più intensi del documentario, perché c’è la gioia nello stupirsi di questa differenza e allo stesso tempo un punta di rammarico nel non poter skatare liberamente quegli spazi. È la stessa tensione che si accende in questi mesi a Torino nella piazza di Valdo Fusi, uno spazio che gli skater hanno restituito alla città e che oggi la città sembra voler sottrarre loro. Perché lo skateboarding vive da sempre questa intima contraddizione tra il suo essere tattica che libera lo spazio e il rischio costante di diventare anch’esso una forma di potere appropriandosi di esso.

Oggi che le nostre città sembrano diventare sempre più aliene e distanti, oggi che il diritto alla città è al centro dei conflitti sociali, da Taksim agli Occupy, è proprio oggi che c’è davvero bisogno degli skateboarder.

Perché, come scrive sull’Independent Iain Borden, professore di architettura, studioso di culture urbane e autore di Skateboarding. Space and The City (un denso saggio sul rapporto tra lo skate e lo spazio urbano), gli skater sono figure della differenza. Essi ci aiutano a pensare ancora la differenza nelle nostre città, le loro manovre e traiettorie attraverso lo spazio ci dicono che c’è ancora posto per letture alternative degli ambienti che viviamo ogni giorno, mentre le loro tattiche di fruizione della città ci insegnano che di essa sono ancora possibili usi che prescindono dalla proprietà e dalle dinamiche di potere che essa comporta.

Probabilmente Skateboarding is not a crime (lo skateboarding non è un crimine), il vecchio motto degli skater, non ha mai avuto una valenza politica così forte come in questi tempi convulsi.