Nelle storie parallele della sinistra e dello sviluppo capitalistico, lavoro e reddito hanno sempre costituito due facce della stessa medaglia e camminato nella stessa direzione: più lavoro e più reddito nelle fasi di crescita, meno lavoro e minori redditi in quelle di crisi.
Nel tempo sinistra e sindacati hanno conquistato strumenti per affrontare le crisi con ammortizzatori sociali a difesa del reddito anche quando il lavoro diminuiva. Con essi la relazione diretta tra lavoro e reddito veniva incrinata nella convinzione comune che la tenuta dei redditi avrebbe evitato la caduta della domanda e favorito la ripresa dell’occupazione.
Negli ultimi anni un attacco a quella relazione è venuto dal fronte opposto: riducendo il lavoro stabile e sviluppando quello precario, anche nei pochi anni in cui il lavoro complessivo è aumentato, i redditi da lavoro sono diminuiti.
Con la crisi, quella relazione è stata ripristinata – meno lavoro e meno redditi in una spirale recessiva di cui non si intravede la fine – ed adesso, tra disoccupati che corrispondono alle definizioni statistiche e scoraggiati con diverse sfumature, le persone cui viene negato il diritto sia al lavoro che al reddito superano i cinque milioni.

In questo contesto, ed a quanto sembra solo nella sinistra italiana, si sta sviluppando un dibattito sulle possibili vie d’uscita che introduce ulteriori elementi di separazione, anzi di vero e proprio divorzio, tra lavoro e redditi: le proposte di reddito di cittadinanza e di reddito inserimento, di reddito minimo e di reddito sociale nascono da questa linea di ricerca e tendono a garantire forme di reddito sganciate dalla prestazione lavorativa.
A queste proposte si aggiungono quelle che intendono affrontare la lotta alla disoccupazione agendo non sul reddito, ma sul lavoro attraverso la ridistribuzione delle ore lavorate.
I sostenitori le due opzioni sono mossi dalla convinzione che i livelli di disoccupazione raggiunti non saranno facilmente assorbiti, mentre altri a sinistra vedono in queste ipotesi il pericolo di una accettazione della realtà e di una rinuncia al diritto al lavoro. Siamo di fronte, così, ad un dibattito sul futuro di lavoro e reddito che non è nuovo a sinistra. Senza risalire fino a Marx e Keynes, esso ha alle spalle, elaborazioni affascinanti come quelle degli anni ottanta e di Andrè Gorz, concrete sperimentazioni generali come quella francese sulle 35 ore ed applicazioni emergenziali per affrontare situazioni di crisi di settori produttivi.

Quale è il bilancio di quelle esperienze? Se si esclude quella tedesca nel settore auto che ha ricalcato il modello dei contratti di solidarietà tra lavoratori di una azienda per difendere il posto di tutti, l’esperienza delle “35 ore in un solo paese” è stata di fatto vanificata dalle leggi ferree della competizione globale, mentre le teorie di Gorz sulla distribuzione del lavoro tra persone e nell’arco della vita sono rimaste nel libro dei sogni della sinistra. Ci ritroviamo così con una disoccupazione che ha raggiunto dimensioni senza precedenti in tutti i paesi sviluppati, mentre niente lascia prevedere che ci potrà essere una ripresa con tassi di crescita tali da consentirne il riassorbimento.

Perché è accaduto tutto questo e siamo di fronte oggi ad una crisi che sta trascinando verso il baratro lavoro e redditi insieme? Erano quelle, teorie e pratiche infondate ed utopiche? Sono state promosse in tempi non ancora maturi? Ci sono oggi le condizioni per introdurre una vera e propria rivoluzione nel lavoro che riguarda tempi, redditi e loro distribuzione?
Le risposte debbono muoversi tra due esigenze estreme: quella di misure immediate per alleviare i drammi del lavoro perduto e la disperazione di chi lo cerca invano; quella di soluzioni convincenti e di lungo periodo adeguate al carattere strutturale della crisi. Tra questi due estremi si dovrebbe delineare un percorso di lavoro che vorrei provare a indicare per punti.

1) Una ripresa economica, incentrata sui settori produttivi avanzati, nel recupero – urbano ed ambientale – e nei servizi alla persona è senza dubbio condizione importante per bloccare la caduta e creare nuovo lavoro.

2)Ma questo processo difficilmente potrà dare risultati significativi a breve-medio termine. Quindi misure straordinarie che attenuino gli effetti più pesanti della disoccupazione si impongono.

3)L’istituzione di un reddito di cittadinanza può rispondere a questa esigenza fungendo da ammortizzatore sociale di emergenza.

4) Essa è l’unica capace di saldare presente e futuro introducendo un principio di valore strategico: la ricchezza va distribuita non solo a coloro che contribuiscono a produrla col lavoro prestato nella sfera del mercato creando valori di scambio, ma anche a coloro che prestano attività sociali, cooperative e di cura che generano valori d’uso senza riceverne, però, una remunerazione.

5) In questo modo il reddito di cittadinanza potrebbe diventare uno strumento di “emersione e riconoscimento” di quelle attività e di loro “valorizzazione”.

6) Se è vero come è vero che tantissime attività (lavoro domestico e di cura in primo luogo) producono Pil se svolte come lavoro retribuito e valgono zero se svolte gratuitamente nell’ambito familiare e del volontariato sociale, una loro “valorizzazione” tramite un reddito di cittadinanza avrebbe un altro valore strategico: far cadere quel muro che separa artificiosamente lavoro e non lavoro. occupazione e disoccupazione.

7) La distinzione tra occupati e non, infatti, è sempre più lontana dal rappresentare la realtà: all’interno del mondo del lavoro esistono ormai tante posizioni in termini di sicurezza e durata del lavoro che si può parlare di veri e propri mondi differenziati e qualche volta addirittura configgenti. Non molto diversa è la situazione nella sfera dei non occupati dove convivono aree di disperata emarginazione accanto ad aree di creatività e di impegno sociale che, in alcuni casi sono veri e propri avamposti di una nuova relazione tra lavoro e vita.

8)Insomma oggi tra occupati e non si snoda un mondo estremamente variegato in un continuum con mille sfumature. Un mondo ancora molto ancora da indagare, ma certamente non più racchiudibile nello schema classico occupati-disoccupati.

9)In questo nuovo contesto la ridistribuzione del lavoro è il secondo sentiero da percorrere. Essa può offrire risposte all’emergenza nelle situazioni di crisi con contratti aziendali di solidarietà.

10)Ma la ridistribuzione del lavoro può essere anche una risposta strategica alla diminuzione strutturale del lavoro necessario: ridistribuire il lavoro significa mettere in discussione anche i ruoli sociali, la separazione tra lavoro produttivo e lavori domestici e di cura, la relazione tra tempi di vita e di lavoro.

11) Si potrebbe, insomma, pensare ad un contratto nazionale ed europeo di solidarietà per la liberazione del lavoro e dal lavoro.

12) Ed infine: un percorso così ambizioso e complesso può essere tracciato solo da economisti ed esperti senza una partecipazione attiva dei soggetti interessati, delle mille sfumature di occupati e non e senza una sinistra politica e sindacale che elabori, ed a livello europeo, un progetto di futuro di fronte ad una crisi epocale come quella in cui siamo immersi?