In un frangente, come quello che stiamo vivendo, di inevitabile sovraesposizione delle procedure mediche nel discorso pubblico, può essere interessante rivisitare un episodio non troppo noto, e certo un po’ meno drammatico, della storia della medicina. Nel 1882 Robert Koch, professore all’Università di Berlino, scoprì il bacillo della tubercolosi, che all’epoca mieteva moltissime vittime, e l’hanno successivo isolò l’agente patogeno del colera, malattia trasmessa dall’acqua infetta. Com’è abituale nel contesto di ogni scoperta scientifica, Koch ebbe forti oppositori, tra cui il chimico Max Pettenkofer, sostenitore di una teoria epidemiologica differente. Costui si spinse fino a farsi mandare da Koch dei campioni di acqua infettata e a berla per confutare le idee del rivale. Pettenkofer accusò sintomi non troppo gravi, che dichiarò non essere connessi al colera, ma la sua azione non servì comunque a screditare le ipotesi di Koch, che trovarono via via conferma (a riprova, invece, dell’istinto autodistruttivo del chimico va il fatto che morì suicida nel 1901). Tra i supporter di Pettenkofer c’erano molti imprenditori e medici delle stazioni termali europee, poiché indirettamente le scoperte di Koch a proposito di tubercolosi e colera ridimensionavano la popolarità dei sanatori e gettavano sospetti sulle fonti termali, dove episodi di colera si verificavano con una certa frequenza. In senso più generale, rischiavano di mettere in discussione un sistema economico e culturale fondato su un’antica idea di cura del corpo che aveva raggiunto il suo apice proprio nel XIX secolo.
L’episodio viene raccontato e letto in questa prospettiva nel libro L’Europa alle terme da David Clay Large, storico dell’Università di San Francisco e dell’Institute of European Studies di Berkeley (EDT «La Biblioteca di Ulisse», trad. di Anna Lovisolo, pp. 487, € 28,00). Come sottolinea l’autore, le scoperte di Koch potevano avere l’effetto della celebre esclamazione del bimbo nella fiaba di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore. La fiducia nei benefici delle stazioni termali si era nutrita a lungo dell’assenza di alternative più utili e fondate, «ma che cosa sarebbe accaduto se la medicina convenzionale fosse effettivamente riuscita a guarire le malattie?». L’imperatore che dominava il regno incantato delle stazioni termali si era rivelato nudo.
Ma, facendo alcuni passi indietro, non è difficile accorgersi che la moda di frequentare questi stabilimenti (in tedesco Kurorte) non era fondata in maniera determinante ed esclusiva sulle cure che vi si somministravano. Certo, l’idea che «passare le acque» portasse benefici alla salute aveva radici profonde, che risalivano al mondo greco-romano, e si era periodicamente riaffermata nel Medioevo e nella prima modernità. Ma è a partire dall’Ottocento che le città termali, in particolare quelle dell’Europa centrale, avrebbero conosciuto la loro età dell’oro. Lo sviluppo e la popolarità cui andarono incontro è il risultato di una combinazione di fattori che ci aiutano a capire meglio come, a partire da due secoli a oggi, è andata formandosi la cultura europea e quello stile di vita che è ancora pienamente il nostro. «Le grandi stazioni termali sono specchi acquei che riflettono volti in continuo mutamento» scrive Large, ed esaminarne la parabola non è la «vacanza» dello storico, ma un modo eccezionalmente efficace per raccontare l’evoluzione, insieme, di mode, teorie mediche e antropologiche, consumi culturali e voluttuari, strutture politiche e sociali.
Si prenda ad esempio la più celebre delle città termali, Baden-Baden, le cui acque sono note fin dall’antichità e che giunse a essere conosciuta come «la capitale estiva d’Europa»: non fu tanto la fede nell’idroterapia a dettarne la celebrità, ma innanzitutto il fatto che sul finire del XVIII secolo divenne meta degli aristocratici francesi in fuga dai furori rivoluzionari. Nella piccola città ai margini della Foresta nera, alcuni degli émigrés si arenarono come balene prive di orientamento in quella tempesta storica, altri invece ricrearono l’ambiente in cui erano abituati a vivere reinventandosi imprenditori del lusso. Un altro impulso fondamentale al successo della cittadina fu dato dalla principale delle attrazioni collaterali, il gioco d’azzardo, appannaggio di leggendari concessionari francesi come Antoine Chabert (fonte di ispirazione per il Père Goriot balzachiano) e Jacques e Édouard Bénazet. Costoro, imprenditori spregiudicati ma anche lungimiranti, compresero l’importanza di fornire attrattive esclusive ai clienti che dividevano il loro tempo tra le acque e i tavoli da gioco della Conversationhaus (l’ex collegio gesuitico riconvertito in casinò) e si tramutarono in mecenati e impresari della cultura. Invitarono a suonare vere star dell’epoca come Paganini e Liszt, trasformando così Baden-Baden in una delle capitali europee della musica e in qualche modo creando un sistema non troppo diverso dai grandi alberghi-casinò di Las Vegas.
Il complesso di attrattive della cittadina finì presto per mettere in ombra le virtù terapeutiche del luogo, tanto che A.B. Granville, il medico britannico di origini milanesi autore nel 1837 di The Spas of Germany, lamentava la scarsa applicazione dei visitatori nelle cure e il fatto che a Baden-Baden la notte «si trasformava in giorno, e spesso gli ammalati vanificavano la sera il bene che si erano fatti durante la giornata bevendo e immergendosi nelle acque». E la notte (ma non solo) era il teatro dei giocatori d’azzardo, i più famosi dei quali provenivano dalla Russia: Sophie Kissileff, ad esempio, di cui si diceva che giocasse una sola volta al giorno, dalle undici di mattina alle undici di sera, la cui passione non fu fermata né dal divorzio né da una bolla papale, e che al casinò di Bad Homburg perse l’equivalente di tre milioni e mezzo di euro; ma anche Lev Tolstoj e Fëdor Dostoevskij, i quali si trovarono entrambi a chiedere prestiti d’emergenza a Ivan Turgenev, che a Baden-Baden si era stabilito vivendo un pacifico ménage a trois con la cantante Pauline Viardot-García e il marito di lei, l’impresario culturale Louis Viardot. A margine, segnaliamo che a questi tre personaggi e alle loro vite cosmopolite nell’Europa dell’Ottocento è dedicato il bel volume Gli europei dello storico e romanziere britannico Orlando Figes (Mondadori «Le scie», trad. di Laura Serra e Giovanni Zucca, pp. 604, € 28,00), che con il libro di David Clay Large ha molti punti di contatto e che può essere utilmente letto in parallelo, poiché racconta con respiro più ampio aspetti solo sfiorati da L’Europa alle terme, come l’evoluzione dei trasporti (determinante per il successo dei Kurorte), del mercato dell’arte, delle tournée teatrali e dei mezzi di comunicazione.
Questi pochi accenni dovrebbero bastare a comprendere come la posta in gioco, al momento della disfida tra Koch e Pettenkofer, fosse molto alta e investisse – anche se collateralmente – una costellazione di luoghi che rappresentavano un’epoca e un modo di vivere, un mondo che peraltro non era più solo appannaggio dell’aristocrazia e dell’élite culturale, ma anche di una borghesia sempre più desiderosa di spendere i propri guadagni. Come affrontarono dunque i Kurorte la nuova ondata di modernizzazione medica? Semplice, capirono che occorreva cavalcare l’onda invece che contrastarla, e divennero centri sempre più medicalizzati. Il gioco d’azzardo, nel frattempo, era stato abolito dal Kaiser Guglielmo I e, seguendo i dettami stabiliti dai nuovi medici specialisti, l’opera e i teatri si decisero a chiudere i battenti alle nove in punto, consentendo così ai pazienti lunghi sonni riposanti. La nuova clientela borghese, protagonista nelle rispettive città di provenienza di una vita più stressante e ansiogena di quella dei vecchi clienti, si mostrò decisamente mansueta nell’accettare quelle norme. Così, lo scrittore americano W.D. Howells, in visita nel 1899 alle terme di Karlsbad, lamentava che alle nove di sera la cittadina era deserta come altre città a mezzanotte. Una visione del passato, questa, che ha il sapore di qualcosa che abbiamo cominciato a conoscere fin troppo bene.