Il principale motivo di interesse degli US Open in partenza a New York è rappresentato dalla rincorsa di Serena Williams al Grand Slam, ossia la vittoria in tutti i principali tornei di tennis nello stesso anno solare. Dopo aver già vinto con buon agio in Australia, a Parigi e a Wimbledon, la possente giocatrice è largamente favorita pure a Flushing Meadow, anche a causa della latitanza di contendenti all’altezza, visto che Maria Sharapova, la sola che potrebbe contrastarla quanto a potenza e talento, ha recentemente dichiarato di evitare accuratamente eccessivi carichi in allenamento, per non guastare un fisico da pin-up che le garantisce contratti milionari dagli sponsor.

Rispettando i pronostici e conquistando il suo ventiduesimo Slam, Williams diventerebbe soltanto la quarta donna della storia a conseguire il prestigioso traguardo. La prima a inanellare i quattro tornei fu Maureen Connolly nel 1953, all’epoca appena diciannovenne. Abbandonata ancora infante da un padre alcolizzato e uscita dalle grinfie di una madre frustrata per non aver potuto coronare il sogno di diventare pianista, Connolly fu la prima ragazzina prodigio del tennis moderno, divenendo campionessa under 18 di tutti gli Stati Uniti a soli 15 anni. Mancina naturale, era stata convertita alla più canonica presa di destro dal suo primo coach e appena adolescente era passata alle cure non proprio amorevoli di Eleonor Tennant, celebre per essere l’allenatrice di stelle hollywodiane come Clark Gable e Charlie Chaplin e per l’ossessiva ricerca del successo, anche per interposta persona.

Nella feroce determinazione di Connolly, che odiava le avversarie per predisporsi a meglio batterle sul campo, vide la leva su cui costruire una campionessa imbattibile. Siffatto temperamento fu ulteriormente forgiato da Tennant, che plasmò la sua protetta con severità militare e una certa perfidia. Ne sortì una tipa con un incrollabile spirito competitivo, eccezionali doti di concentrazione e due colpi da fondo campo di tale e inusitata potenza da indurre un giornalista a eternarla con il soprannome di Little Mo, in onore della corazzata Missouri, la nave su cui i plenipotenziari giapponesi avevano firmato la resa incondizionata dopo le atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Fra l’estate del 1951 e quella del 1954, cannoneggiando dalla riga di fondo, Connolly mise in fila nove major, vincendo 50 partite contro nessuna sconfitta. L’anno del Grand Slam, perse solo un set nei quattro tornei.


Tanto ardeva di voglia di vincere con la racchetta in mano, tanto era una ragazza spumeggiante fuori dal campo, piena di allegria e cordialità, appassionata di hamburger, baseball, danza ed equitazione. Per onorare i suoi successi, i concittadini di San Diego vollero così omaggiarla con un nobile destriero, che Connolly prese a cavalcare con la passione che la divorava fin da bambina. Il 20 luglio 1954, spaventato da un camion, il cavallo la disarcionò e, nella rovinosa caduta, la giovane si procurò la frattura esposta della tibia e la lacerazione di muscoli e tendini. L’infortunio interruppe la sua carriera e fu solo il primo colpo del destino, che si ripresentò sotto forma di un tumore maligno che la uccise nel 1969: l’unico riguardo riservatole dal fato fu di non vedere il suo primato eguagliato da Margaret Smith Court nel 1970.


La statuaria australiana aveva uno stile del tutto antitetico. Straordinariamente mobile per la sua notevole altezza, con un servizio potente e un’ampia apertura di braccia, dominava le avversarie con un incessante gioco di rete, sostenuto da una stoica dedizione al potenziamento fisico e atletico. Con muscoli insoliti, ma valori tradizionali, Smith scappò dalle pressioni della fama dopo aver già vinto tredici titoli dello Slam e, stabilizzata dal matrimonio con Barry Court, tornò sul circuito dopo due anni di stop nel 1968. Non si avvide, o non condivise, la lotta che molte colleghe, a rischio della propria carriera e capeggiate dall’intraprendente Billie Jean King, avevano intanto intrapreso contro il maschilismo che impregnava anche il mondo del tennis. Riprese a macinare successi dopo successi e, durante l’anno del poker, la finale più memorabile fu quella di Wimbledon, quando fu opposta proprio alla ribelle King, che anni dopo avrebbe congedato il consorte per rivelare la propria omosessualità. Con una caviglia ridotta alle fattezze di un melone per una distorsione subita nei turni precedenti, come una moglie remissiva ma certa del suo ruolo, Court sopportò due iniezioni di antidolorifico e rimase in campo per quasi due ore e mezzo, prevalendo infine sulle rivale per 14-12, 11-9, in uno dei match più memorabili della pur gloriosa storia del torneo londinese.

L’anno seguente, incinta del primo di quattro figli, fu sconfitta a Wimbledon dalla connazionale Evonne Goolagong e sospese l’attività agonistica. Fu però capace di tornare e diventare la prima mamma a trionfare negli Slam. Alla fine, ne avrebbe assommati ben 24, un record che resiste ancora oggi e che insidiò da vicino Steffi Graf, fermandosi a 22.
La tedesca fu anche l’ultima a fregiarsi del Grand Slam, nel 1988. Nata nel 1969 e sbocciata durante il crepuscolo di Martina Navratilova e Chris Evert, che contribuì ad accelerare, Graf fu guidata a lungo da un padre ossessivo e occhiuto, a un certo punto rinchiuso in carcere per aver evaso il fisco con i guadagni della figlia, cui aveva messo in mano la prima racchetta alla tenerissima età di tre anni. Con due gambe da quattrocentista, un servizio solido e penetrante, e soprattutto un dritto devastante che le valse l’appellativo di Fräulein Forehand e che compensava un rovescio a volte limitato da un’intermittente fragilità caratteriale, Graf fu praticamente imbattibile nel suo anno d’oro, quando si aggiudicò il 96% degli incontri disputati. Al Roland Garros, nella scalata verso il titolo, lasciò dietro di sé una scia di distruzione, concedendo solo 20 giochi alle avversarie e di fatto passando più tempo in conferenza stampa che sul campo. Nell’incontro per il trofeo, si trovò di là dalla rete la giovanissima bielorussa Natasha Zvereva, la cui inaspettata ascesa aveva suscitato una tale frenesia in patria che la tv sovietica trasmise in diretta la gara, sfruttando i risicati spiragli di libertà garantiti dalla perestroika gorbacioviana.

Graf fu impietosa e in appena 32 minuti inflisse alla malcapitata outsider un doppio 6-0, un evento che non si verificava in una finale dello Slam addirittura dal 1911, quando era stata l’inglese Dorothea Lambert Chambers a umiliare la connazionale Dora Boothby a Wimbledon. Quel major parigino fu anche il primo dal 1970 in cui né Evert, né Navratilova raggiunsero almeno i quarti di finale e fu sui prati londinesi che avvenne il vero e proprio passaggio di consegne a favore della rampante teutonica. Apertasi la via per l’atto conclusivo facendo al solito strame di ogni rivale, vi trovò l’immarcescibile Martina Navratilova, ben decisa a ricevere dai duchi di Kent la settima corona consecutiva. Sotto di un set e 0-2 nel secondo, Graf cambiò racchetta e umore, sprintando per nove game di fila e lasciando la leggendaria antagonista a monologare impotente sull’opportunità smarrita.


Sul cemento americano, l’en plein fu completato ai danni di Gabriela Sabatini, che pur beneficiò nell’occasione del sostegno della maggioranza degli spettatori. Il punto che valse il Grand Slam fu uno dei rari rovesci colpiti a tutto braccio, che quasi divelse la racchetta dalle mani dell’argentina. Non paga, Graf si concesse solo pochi giorni di riposo, per imbarcarsi poi nel primo torneo olimpico open da oltre 60 anni. Nel match per l’oro, la sua vittima fu di nuovo la bella Gabriela: fu così che l’inedita e mai più eguagliata impresa della tedesca fu appropriatamente definita Golden Slam.