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Non avrei mai pensato di diventare un fumetto. Di attraversare il mondo e le storie a cavallo di vignette trasformandomi in un tratto di matita in bianco e nero. Ma il punto di questo libro, Bulletproof Diaries, storie di una reporter di guerra, (disegnato da Emilio Lecce) e del lavoro del giornalista in generale, è raccontare una storia, non importa come, che siano immagini, parole, voce e come in questo caso, disegni. Raccontare, spiegare, investigare, scoprire il mondo è un impegno sempre più spesso sottovalutato, ma sempre più necessario. All’alba del terzo millennio si pensa che l’informazione debba essere un servizio gratuito all’opinione pubblica, invece nella nostra professione, quella di cantastorie contemporanei, mai come ora è necessaria la cura, la professionalità, la costanza, l’essere puntigliosi. Internet è stato un toccasana per la diffusione delle notizie, ma anche il veicolo principale della disinformazione. Muoversi in questo mondo fatto di storie vere e di propaganda, è quello che oggi distingue il buon giornalismo, che non è più solo quello che si legge sui giornali o si vede in tv. È un mondo fatto di social, di siti, di dati trapelati e di fonti.

Quando cominciai, tutto quello che desideravo era fare la giornalista di guerra, essere assunta da un giornale per viaggiare e raccontare la Storia mentre accadeva. Vent’anni dopo, all’indomani di un mondo diverso, ho dovuto aggiornare i miei sogni, sradicare i miei desideri, spesso scavalcare tutto quello che avevo ammirato per creare qualcosa di nuovo. Quando mi dicevano di non andare in un posto perché era troppo pericoloso, ci andavo perché dovevo raccontare le persone che «in quel troppo pericoloso» vivevano, quando ho capito che non c’era posto per me e quelli come me nei media tradizionali, insieme ad altri colleghi ci siamo inventati una radio che per raccontare il mondo come crediamo sia giusto fare. È nata così Radio Bullets, sono nati così i miei libri quando i capodirettori mi dicevano che gli Esteri alla gente non interessano, è cresciuto così il mio lavoro, dando spallate ai «no» e scavando tra le macerie di un mestiere che ti uccide più qui in Italia che in guerra.

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Non significa che combattere sempre non sia stato difficile, ho sacrificato più di quanto avrei voluto della mia vita, ho dato tutto quello che avevo per non smettere di lavorare, che fossero soldi o sonno. E alla fine, anche se non sono ancora alla fine, non ti resta molto di concreto, se è il concreto su cui si basa la vita di una di una persona.

E se così fosse, avrei sbagliato tutto, ma se invece così non è, se il senso della vita e del mestiere che si sceglie, fosse la realizzazione di quello che volevi fare, se è la determinazione a portare avanti le cose in cui credi, se è quella parte nella vita delle persone che hai conquistato, allora forse non ho sbagliato proprio tutto.(…)

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Ce ne sono tante di persone che chiedono, vogliono, cercano un giornalismo fatto di storie e di inchieste, meno urlato, meno sbattuto, un giornalismo che racconta le notizie per quello che sono senza usarle o manipolarle perché le opinioni si devono creare sui fatti non sui giudizi di chi scrive o parla. Ma per arrivare qui, ci vuole un lavoro lungo: quando gattini e orsi, fanno più notizia di un bombardamento in Yemen o di uno scandalo politico in Sudamerica, non ci si può adattare, lo so si può accettare, non si possono scartare gli avvenimenti, ma si devono cambiare le menti. Per troppi anni la cultura e il giornalismo, sono stati relegati a un ruolo secondario, era il dopolavoro, era il weekend, era quei 20 minuti in autobus. Invece dovrebbe essere importante come tutto il resto, e per esserlo deve essere parte di noi. È vero che i libri, la cultura, il sapere cosa accade nel mondo, non fa mangiare, non riscalda d’inverno e non paga il mutuo, ma fa pensare e fa girare l’anima del mondo.