«Un piccolo verme vile». Così, l’attrice Rose McGowan ha definito Woody Allen dopo che il regista newyorkese, in un’intervista alla BBC, rilasciata domenica mattina, aveva descritto l’affaire Weinstein come «una cosa molto triste», ammonendo però dei rischi impliciti di un clima da caccia alle streghe «in cui uno che fa l’occhiolino a una donna in ufficio deve ricorrere all’avvocato». Entro la serata Allen era costretto a emendare la sua dichiarazione, ritenuta troppo benevola nei confronti di Harvey, e specificare «in esclusiva» a Variety, la sua disapprovazione nei confronti del comportamento del produttore («Weinstein è un uomo seriamente malato»).

Questo dopo che, sabato, il tappeto rosso del suo nuovo film Wonder Wheel, previsto in chiusura al New York Film Festival era stato frettolosamente cancellato per evitare al regista e ai produttori del film, Amazon (il cui capo dello studio Ron Price è appena stato sospeso perché accusato di commenti di natura sessuale fatti alla figlia di Philip K. Dick), l’imbarazzo di una batteria di giornalisti che chiedevano di Harvey e/o se non addirittura di picchetti di protesta. Gli sforzi non sono serviti a molto: la prima pagina del New York Post (il quotidiano di Rupert Murdoch la cui Fox sulla molestia sessuale non ha molto da vantarsi) di ieri mattina era dedicata a una foto di Woody Allen con Harvey Weinstein: Witless for the Defense, diceva il titolo, in un gioco di parole tra witness, e cioè testimone, e witless, stolto. Più sottile, ma secondo lo stesso filo logico (vedi: tra pervertiti ci si intende), una breve del New York Times che, citando le recenti dichiarazioni di Allen, «ricordava» che la Miramax aveva distribuito alcuni dei suoi film negli anni immediatamente successivi al suo scandalo.

Data la firma del reportage su Weinstein pubblicato dal New Yorker era solo questione di giorni prima che anche «Woody» finisse nell’occhio del ciclone. Risucchiati con lui – oltre a Price,che però non lo conosce nessuno- Polanski, Mel Gibson e Bill Cosby, subito identificati dai media come possibili candidati all’espulsione dall’Academy votata per Weinstein a stramaggioranza durante il week end, e di cui già domenica sera John Oliver, su HBO, ha chiesto ufficialmente le testa. Non importa se – ad eccezione di Polanski – nessuno degli uomini in questione è stato condannato per i suoi supposti crimini.

Anche Weinstein – che sta indubbiamente raccogliendo i frutti di un ampio elenco di malefatte- continua a negare qualsiasi accusa di stupro. È bastato che, da Busan, Oliver Stone – interrogato su Harveygate – ricordasse che ognuno ha diritto a un processo che, sui social, una modella di Playboy lo accusasse di averla palpeggiata più di venti anni fa. Come Allen, anche Stone he dovuto «chiarire» che prendeva le distanze dall’orco della Miramax. E hanno dovuto scusarsi (dopo essere stati coperti di invettive e minacce via twitter), anche alcuni comici che hanno provato a ridere delle disgrazie di Harvey. Stavano, secondo il lynch mob dei social, insultando «le vittime». È probabile che – data la valanga di accuse e l’atmosfera da picche e forconi – l’Academy non potesse far altro che espellere Weinstein. Il voto e le deliberazioni sono segreti ma, a sentire i trades, alcuni membri del board hanno espresso preoccupazione nei confronti del precedente. Non a torto: dove ci si ferma quando si comincia ad espellere qualcuno per questioni di comportamento? Arriverà questa purga a toccare anche i film?

E, se la rabbia e la confusione che escono da questa stura di piccole o grandi umiliazioni e violenze taciute per anni, si possono capire, i toni e l’intransigenza sono veramente preoccupanti. Oltre che miopi: il rogo di Harvey è anche alimentato dall’odio dell’establishment mediatico e hollywoodiano per Donald Trump che però, in barba all’effetto transfer, se la sta ridendo dopo aver appena firmato una legge che permette alle assicurazioni di non includere i contraccettivi nel pacchetto obbligatorio (come stabilito da Obamacare). Un problema, quello di potersi permettere la pillola o il diaframma, che magari non riguarda molte attrici. Ma che ha implicazioni ben più gravi del casting couch.