Tra gli aspetti più affascinanti della lunga epopea della musica «rock» e dei suoi derivati c’è l’irripetibile momento in cui, all’improvviso, nasce un nuovo suono, una nuova tendenza, qualcosa che aggrega ascoltatori e musicisti intorno a un’entità che prima non c’era. Ancora più intrigante è quando ciò accade «dal basso», spontaneamente e grazie a un gruppo limitato di persone. I ragazzi, le ragazze, si raccolgono intorno a un suono, a un’estetica, a una serie di locali, di personaggi di riferimento, inventano uno stile. Che progressivamente affinano e cambiano, perfezionano e cesellano in base ai loro gusti. Il «sistema», sia esso discografico che più genericamente «sociale», resta inizialmente a guardare, vagliare e soppesare i contenuti e ne contabilizza gli eventuali guadagni e ricavi.

NUOVE STRADE

Lascia alla purezza e all’urgenza delle «scene» e dei movimenti il compito di aprire nuove strade e di stabilizzarle, facendogli fare proseliti, permettendo di creare una base consumistica, una struttura indipendente, su cui poi lavorare per sfruttarne economicamente i risultati. Qualcosa del genere accadde nei primi anni Settanta in Inghilterra quando incominciò a prendere piede una nuova sonorità, un nuovo culto musicale, il northern soul.

Il collezionista Dave Godin (colui che aveva fatto conoscere a un giovanissimo Mick Jagger la musica nera Usa, dal blues, al soul, al rhythm and blues, creando a Londra la «Tamla Motown Appreciation Society» e diventando il referente inglese per la celebre etichetta Usa) che lavora in un negozio di dischi, conia il termine northern soul scrivendone sulla rivista Blues and Soul nel 1972. «Incominciai a notare – sentenziò – che i tifosi delle squadre di calcio del nord dell’Inghilterra quando arrivavano a Londra compravano dischi di black music, ma erano totalmente disinteressati alle novità delle classifiche statunitensi. Così misi i dischi a cui erano abitualmente interessati in uno spazio preciso che denominai ’northern soul’ (il soul del nord)».La musica nera Usa aveva virato verso il funky e altre contaminazioni, e se la nuova scena londinese si stava immergenda in questa nuova tendenza, quella del nord era invece intenta al recupero e alla conservazione dei suoni precedenti. I dischi usciti a metà degli anni Sessanta, spesso stampati in poche copie, proposti da artisti sconosciuti, scomparsi velocemente dalla circolazione e mai arrivati a particolare successo (da cui per il northern soul anche la definizione di «genere nato dagli errori), vengono così recuperati nei locali del nord dell’Inghilterra dove incomincia a girare musica ricercatissima, raffinata e selezionata con cura maniacale.

Si tratta di musica soul ma più veloce di quella abitualmente conosciuta, arricchita da arrangiamenti di archi e con melodie molto facili ma soprattutto da ritmi infuocati. Un tentativo di imitare le ricche e riuscite produzioni della Motown che portò la black music ai vertici delle classifiche pop con brani facili e orecchiabili (vedi Diana Ross and The Supremes). Ma se la musica è importante, essenziale è invece il ballo. Ognuno perfeziona il più possibile le mosse, i passi studiati secondo uno stile ben preciso, le movenze devono essere armoniche, sensuali, fino a diventare sempre più complesse e sconfinare nell’acrobatico e ginnico. Salti, spaccate, piroette triple o quadruple, la teatralità delle espressioni facciali e della gestualità di mani e braccia, sono caratteristiche che rendono unica l’esperienza di una serata Northern Soul.

FINE DI UN’ERA

Buona parte dei mod che avevano infiammato i locali di tutta l’Inghilterra dai primi anni Sessanta fino a metà del decennio, ballando prima modern jazz e blues, poi rhythm and blues e ska per poi appassionarsi a beat e a gruppi come Who, Small Faces, Kinks, Creation, Georgie Fame and The Blue Flames, si erano progressivamente avvicinati ai nuovi suoni che portavano alla psichedelia e che arrivavano da nomi esordienti come Pink Floyd, Jimi Hendrix, Cream e che erano stati abbracciati anche dai loro idoli precedenti. I capelli crescono, spuntano barbe e baffi, i vestiti si fanno sempre più colorati e «orientaleggianti», i brani si dilatano, cambiano le droghe (non più anfetamine per restare svegli tutto il weekend ma acidi per espandere la mente).

C’è un episodio curioso che cristallizza il momento. Nel 1967 Pete Townshend degli Who siede al bar dell’UFO Club sorseggiando una tisana. Entra Irish Jack storico mod (che ispirò Pete nella scrittura dell’opera rock Quadrophenia), impeccabilmente vestito in giacca e cravatta e invita il chitarrista a bersi una birra in un pub notando però il suo nuovo abbigliamento con calzoni porpora, giacca afgana e camicia colorata: «Ma come cazzo ti sei conciato?». Risponde con un certo distacco Pete: «Io sono una macchia di colore nel grigiore di voi mods». Ebbene, molti vecchi e giovani mod non sono persuasi dalle nuove derive della moda e proseguono con più pervicacia e durezza nel loro stile. In tanti, in reazione ai capelli sempre più lunghi, se li tagliano a zero e persistono nella ricerca delle radici della black music fino al reggae. Nasce il movimento skinhead. Ma c’è anche chi resiste nell’approfondire e perseverare lo stile mod. Sceglie più o meno la stessa musica, il soul, disdegnando il nuovo stile funk e torna a tutto ciò che non passa per radio (e quasi mai c’è passato). E mentre a Londra le mode vanno e vengono, nelle zone industriali o perfino rurali del nord dell’Inghilterra, la «Fede continua».

DANCE DANCE DANCE

In breve certi locali di Manchester, Wigan o Blackpool, i mitici Twisted Wheel, Blackpool Mecca, Golden Torch o Wigan Casino si riempiono di ragazzi e ragazze che non chiedono altro che passare la serata e la nottata a ballare (le note maratone All Nighters – le prime e più note quelle al Twisted Wheel di Manchester – che iniziavano alle 24:30 e finivano alle 8). In un certo senso è l’inizio di quella che oggi definiamo «club culture». I gusti però sono esclusivi, raffinati, il successo di un evento è strettamente correlato alla qualità della musica, per palati esigentissimi e da profondi intenditori.

I dj cominciano una disperata caccia ai brani più rari, ormai fuori catalogo, per stupire e divertire i sempre più numerosi appassionati che arrivano, in breve tempo, a oltre 100mila unità. Un aspetto particolarmente interessante della scena Northern Soul è l’assoluta autonomia (iniziale) dall’industria discografica. I dischi suonati dai dj sono assolute rarità, come già detto scarti di produzione mai arrivati al successo, spesso stampati in poche copie e dimenticati.

IN VOLO

Alcuni dj volano negli Stati Uniti nei magazzini delle etichette discografiche a cercare, a pochi centesimi di dollaro, 45 giri di cui nessuno ha mai avuto notizia (la cui etichetta interna veniva poi occultata con adesivi in modo da nasconderla ai rivali per averne l’«esclusiva»). Talvolta impossessandosi di «acetati» (prove di dischi stampati in due o tre copie) mai ufficialmente pubblicati. Nel libro di David Nowell The Story of Northern Soul (essenziale lettura per un approfondimento sulla storia della scena) c’è un appassionante resoconto della scoperta da parte di due dj inglesi volati in Florida di un capannone con 250mila vinili di black music abbandonati e disponibili a prezzi stracciati. Curiose le storie di cantanti e musicisti con all’attivo una sola pubblicazione discografica e poi tornati nell’anonimato, che si trovavano davanti alla porta un dj inglese disposto a tutto pur di trovare una copia del loro prodotto.

Nolan Porter, autore di due eccellenti album nei primi anni Settanta, poi scomparso dalla circolazione, diventato una star dei dancefloor Norhern Soul con i brani Keep on Keeping on e I Could only Be Sure (poi ripreso anche da Paul Weller) scoprì solo tempo dopo, con enorme stupore, di essere un nome riverito e ammirato in Inghilterra (dove poi tornò a suonare in vari club).

Dj come Ian Levine, Kev Roberts, Russ Winstanley, Roger Eagle e Richard Sterling sono punti di riferimento per migliaia di giovani. Le nottate diventano sempre più affollate, con la droga che circola a fiumi per reggere i ritmi e con la conseguente richiesta di brani più veloci e pulsanti (da notare che gli alcolici sono vietati dalle 22.30, e quindi domina la Coca Cola). Il tutto non passa inosservato alle autorità che non di rado fanno irruzioni, fermano serate, arrestano spacciatori e consumatori, chiudono i locali. Molti testimoni dell’epoca sottolineano che non sono pochi quelli che ci hanno lasciato le penne per arresto cardiaco dopo overdose di stimolanti. Si creano addirittura le frange dei «soul fascists» (coloro che prendevano in considerazione solo i dischi usciti prima del 31 dicembre1969).

Lo spirito mod continua, anche se l’estetica è ormai lontana dalle origini. Jeans e t-shirt sportive (in particolare da bowling), scarpe da ginnastica e giubbini Baracuta, gonne e calzoni larghi per muoversi al meglio, sostituiscono gli impeccabili vestiti sartoriali del decennio precedente.

IRRILEVANTE

I capelli si allungano, gli scooter non sono più importanti. Ma la dedizione al weekend tutto da ballare, alla ricerca del vinile più raro e particolare, incuranti di ciò che ti sta intorno, è il chiaro timbro da dove questa nuova scena ha avuto origine. Che peraltro prosegue la tradizione antirazzista che ha sempre caratterizzato la scena mod, dove il colore della pelle, l’estrazione sociale, l’inclinazione sessuale, sono sempre stati irrilevanti. L’importante è la cosiddetta «togetherness», l’essere uniti e solidali intorno a una passione comune.

Ma è anche una fuga ideale e concreta dalla realtà circostante. Non a caso la passione si sviluppa principalmente nelle città del nord, industriali, chiuse, tetre e grigie, ben lontane dalla multietnicità londinese, ormai faro propulsivo di mode e tendenze. Il lavoro scarseggia e quando c’è è espressione proletaria, fabbriche, piccolo artigianato, lavori umili e duri, pochi soldi, scarse prospettive per il futuro. Nelle subculture non c’è una carriera a cui fare riferimento per un miglioramento, spesso non ci sono risposte alla disoccupazione, all’emarginazione, alla routine, ai salari bassi. Né ci sono risposte al sorgere del razzismo che divide, come è sempre stato, i poveri in lotta tra loro, da una parte gli autoctoni sfruttati, dall’altra i figli degli immigrati dalle lontane colonie britanniche, cresciuti in Gran Bretagna, britannici a tutti gli effetti, ma «stranieri in patria». Le notti sul dancefloor a roteare su un sound riconosciuto solo dai partecipanti al rituale, un linguaggio «segreto», incomprensibile agli altri, cancellano per qualche ora tutto ciò, sorta di strategia occulta per ridare dignità a migliaia di giovani.

La musica (e il ballo a essa associato) è il motore principale: ad esempio al Wigan Casino – dove per entrare si sta in fila almeno tre ore – non si balla solo, in sala si acquistano anche 45 giri che altri avventori si portano dietro in scatole più meno grandi. Al club si arriva da zone vicine e lontane, con pullman e treni organizzati, a volte anche con aerei. Tutto funziona perché è un’espressione culturale spontanea, costruita dagli stessi protagonisti, impermeabile a contaminazioni. È il senso di comunità che domina.

Ma, come anticipato, l’industria ha da tempo annusato odore di guadagno e di potenziale sfruttamento economico. Nel 1975 Russ Winstanley del Wigan Casino produsse, ad esempio, un singolo attribuito ai Wigans Chosen Few, Footsee, e per promuoverlo alla popolare trasmissione della Bbc Top of the Pops mandò un gruppo di ballerini di northern soul. Poco dopo, sull’onda della curiosità suscitata da quell’apparizione, fu realizzato un documentario sulla scena e sul Wigan Casino.

I PURISTI

Esplode la moda, gli «appassionati» toccano, come detto, le 100mila unità, ancora una volta il tutto si diluisce, i puristi abbandonano sempre di più la scena commercializzata, dove entrano funky e disco music e incominciano a disertare le serate ma soprattutto arriva la massificazione del fenomeno che lo uccide. In un paio di anni la moda scema e il northern soul torna sotterraneo.

Ci vorrà, agli inizi degli anni Ottanta il revival mod a riportare in auge questi suoni. Se è vero che gli anni Settanta sono stati il momento della nascita e della «purezza» della scena northern soul è nel decennio successivo che invece il tutto si stabilizza e diventa regolare, organizzato e continuativo.

Incominciano Ady Croasdell e Randy Cozens, strettamente legati alla scena mod, a riproporre serate a base di sonorità che sembravano già avere un sapore revivalistico. Inizialmente vengono diffuse cassette (con copertina fotocopiata) con compilation di brani registrati direttamente dai 45 giri. In Italia l’usanza verrà ripresa dall’associazione mod DTK (di cui faceva parte anche chi scrive) e lentamente ritornano a essere ascoltati classici come The Snake di Al Wilson, Seven Days too Long di Chuck Wood (già riproposto nel loro primo album dai Dexy’s Midnight Runners), Landslide di Tony Clarke, Higher and Higher di Jackie Wilson, Out on the Floor di Dobie Gray, Move on up di Curtis Mayfield, Tainted Love di Gloria Jones (ripresa e riportata al successo dai Soft Cell, il cui leader Marc Almond è sempre stato estimatore e frequentatore di serate northern).

Etichette come la Kent Records e la Goldmine, incominciano a stampare preziose compilation che raccolgono i brani più significativi, rari e interessanti di questo immenso universo sonoro e in breve tempo la passione ritorna ad avvolgere i gusti anche dei giovanissimi. Il miglioramento delle possibilità di comunicazione e l’avvento di internet portano il «verbo» in tutto il mondo, si creano scene ovunque, Italia inclusa dove da anni si svolgono con regolarità «all nighters» sempre discretamente affollati e seguiti. Numerosi, soprattutto in Inghilterra, i gruppi musicali dediti a interpretare un repertorio dedicato al genere. I nostri Statuto nel 2007 dedicarono l’album Come un pugno chiuso al rifacimento di classici northern, rivisti in lingua italiana. Di recente è uscito l’album A Nordic Soul dello svedese Magnus Carlson (con Fay Hallam), prodotto dal mago dell’acid jazz ed ex bassista di Paul Weller, Andy Lewis, in cui oltre a qualche riuscita cover, propone brani originali in perfetto stile. Sempre in Italia sono ottimi interpreti del genere del genere i Jane J’s Clan.

E in ultimo Keep the Faith! È il motto più caratteristico legato al northern soul, un invito a portare avanti «la fede», a perpetrarla nel tempo. Un compito che è stato accolto con piacere e buona volontà da migliaia di nuovi adepti.

UNA MICROGUIDA

Per una guida agile e veloce alla scoperta del northern soul è consigliata la visione del film di Elaine Constantine Northern Soul che descrive alla perfezione atmosfere e ambiente della scena originale degli anni Settanta. La colonna sonora è ovviamente un compendio perfetto. La stessa regista ha anche scritto un libro tratto dall’omonimo titolo. Su YouTube non è difficile trovare filmati che, attraverso immagini d’epoca, documentano quanto è accaduto e accade in questo ambito.

Più complesso districarsi tra le migliaia di compilation dedicate al genere. Sono incalcolabili i Best of Northern Soul. Arduo definire un «meglio» della musica in oggetto che di per sé ha un numero infinito di variabili. Il box con tre cd Move on Up. The Very Best of Northern Soul può essere un buon modo per avvicinarsi, ascoltando 75 brani piuttosto rappresentativi.

Uno dei personaggi attualmente più in vista nella scena northern soul è Lauren Fitzpatrick, provetta danzatrice, modella e attrice che, oltre ad aver lavorato per una serie di spot televisivi, era tra i ballerini di Pharell Williams (con Nile Rodgers) ai Brit Awards del 2014 ed è stata finalista al Campionato di northern soul a Blackpool nel 2013 (c’è un video ben rappresentativo in tal senso su YouTube) oltre ad essere un personaggio nella serie tv della Bbc Eastenders.

Le sue parole sono emblematiche: «Sono sempre stata dentro la soul music, soprattutto grazie a mio padre. Lui ha aperto il primo sito web dedicato al Northern Soul, The Nightowl Club negli anni Novanta ed era dentro la scena degli anni Settanta. C’erano sempre dischi che risuonavano in casa. Uno dei miei primi ricordi è di quando avevo circa due anni e vidi una spilla con sopra scritto ’Keep The Faith!’ e ne sono sempre stata molto incuriosita. It’s born into my soul!»