Mahmood Soliman ha cominciato a filmare Nadia nel 2003, lei aveva una trentina di anni, tre figli, due matrimoni falliti alle spalle e una vita di battaglie e di miseria. Il primo marito era molto più vecchio, quando lo aveva sposato Nadia era solo una ragazzina, l’avevano costretta i genitori per liberarsi di lei racconta alla macchina da presa, il volto sempre incorniciato dal velo, gli occhi scurissimi, l’andatura svelta di chi non vuole darla vinta ai colpi anche duri.
Col secondo si amavano, poi era diventato manesco, beveva e non aveva nessuna voglia di lavorare. I figli ne faceva uno dietro l’altro, erano un investimento sul futuro. Nadia stanca di botte e di sopraffazione a un certo punto aveva chiesto il divorzio pagandolo caro, un debito senza fine. Per campare arrota coltelli, cammina tutto il giorno nelle strade del Cairo coi ragazzini, sono la sua casa quelle vie strette e affollate che sembrano ancora oggi un film di Chahine, lì lavorano, mangiano, fanno amicizia con altro ambulanti. Il più grande dei bambini va a scuola, lei ci ha provato a studiare, e piangerà tanto quando il padre, appena cresciuti li farà smettere di studiare per lavorare obbligandoli a dargli i soldi. L’istruzione per Nadia è la cosa più importante, la speranza per sconfiggere la povertà.
We’ve Never Been Kids ha vinto insieme a Madame Courage il concorso del Fcaaal, Festival cinema africano, Asia, America latina, che si è appena chiuso a Milano. Ventisei anni di storia e molta fatica anche qui a cui si oppone l’ostinazione delle due direttrici, Alessandra Speciale e Annamaria Gallone, che continuano in questa loro scommessa nonostante i tagli di budget sempre più netti. Eppure di Africa si parla tanto adesso, almeno per i migranti, anche se nella sua storia il festival africano – all’inizio si chiamava solo così – ha sempre cercato di dare spazio alle immagini meno scontate del continente africano, alle sue energie e alle sue lotte, ai conflitti e alle forme indocili di autorappresentazione antagoniste al «vittimismo» esotico occidentale.
Col tempo il cinema africano ha ridotto la sua produzione (con alcune eccezioni tipo Nollywood), il festival si è allargato ai tre continenti ma nel suo cartellone continua a esplorare ciò che altrimenti rimarrebbe lontano dai nostri schermi. Mescolando star come Kitano Takeshi o Chen Kaige con l’ultimo Monk Comes Down the Mountains e cineasti «nuovi» come Lemohang Jeremiah Mosese, autore di The Mocked One che ha vinto la sezione cortometraggi.
C’è qualcosa che accomuna i due titoli vincitori del concorso internazionale nel quale va segnalato almeno Mina’s Walking, che nonostante qualche ingenuità da opera prima a bassissimo budget rivela lo sguardo di un giovane regista, Yosef Baraki, capace di catturare la realtà nella sua messinscena secondo la lezione di Kiarostami, un suo riferimento per questo film, e prima ancora Rossellini. Siamo in Afghanistan, la Mina del titolo è una ragazzina che per mantenere la famiglia cerca di guadagnare qualcosa con piccoli commerci in giro per Kabul dove la guerra non è ancora finita e molti dei suoi abitanti è costretto a confrontarsi con la povertà e i soprusi E Appena apro gli occhi opera prima di Leyla Bouzid di cui parleremo visto che sta per uscire in sala.
Mentre tra gli eventi speciali il filippino Scarecrow, titolo quasi da horror per un dramma familiare di meschinità e bugie sotto la luce di campi vasti e assolati. Bambanti (spaventapasseri in dialetto Llocano) racconta la storia di Belyn (Alessandra de Rossi), giovane vedova che vive nelle Filippine, nella valle di Cagayan, con il figlioletto Popoy (Micko Laurente). Durante la festa del raccolto di riso e granturco un orologio d’oro scompare e i sospetti cadono tutti sul bambino. La vita già difficile della famiglia viene sconvolta. Zig Dulay, il regista, autore serie tv di successo in patria, sa mettere in scena il suo soggetto con semplicità, ma in modo mai banale, senza trucchi o ricatti verso lo spettatore.
Torniamo ai vincitori. Sia Merzak Allouache, che è stato tra i protagonisti delle nuove onde del cinema algerino emerse tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, che Mahmood Soliman, egiziano, più giovane, danno voce a una rabbia che impasta la violenza della povertà, delle giovani generazioni, di un’ oppressione che ruba la vita, nega i sogni, emargina e produce altra violenza. Soliman segue Nadia e i figli che nel frattempo sono diventati quattro, l’ultima, una ragazzina amatissima dalla madre anche se nata dall’ennesima violenza per tredici anni in un vissuto «privato» che racconta un pezzo di storia dell’Egitto dalla parte di chi subisce quela miseria che appare come una grande costante.
E mentre dialoga con questo quotidiano, che spinge a pensieri e atti estremi, traccia del suo paese un ritratto lucido. Quei ragazzi mai stati bambini sono tantissimi, fragili, confusi, pieni di rancore. Come Khalil, il maggiore, che con lo sguardo spento confida di non vedere un orizzonte. Solo lavoro per pochissimi spiccioli, notti a pulire i bar, a vendere droga nei locali dello zio, a dormire in terra. I loro corpi valgono poco, quasi niente, è come se non esistessero. Si possono vendere, come un altro dei fratelli, anche per non dormire insieme a venti ragazzi nel retro cucina dove si soffoca, o forse per cercare una via di fuga alla propria sessualità nascosta.
Oppure sposarsi giovani come la ragazzina dopo essersi messe il velo in testa. Intanto l’Egitto è esploso, e loro sono in piazza, sventolano gli slogan contro Mubarak. Ma Nadia sa che non basta cacciare lui, e le sue frasi sembrano una profezia. I fratelli musulmani, Al Sisi, nuove oppressioni.
Diciamo che la relazione permette molto al regista, i suoi protagonisti gli confidano tristezza, angosce, delusioni, ma soprattutto la fatica, essere saturi di quella condizione che li inchioda peggio di una condanna e in cui anche il Daesh diviene un orizzonte liberatorio. Non parlano mai di sogni, di quello che vorrebbero fare, le confidenze sono lasciate fuoricampo – ma come si fa a dire pubblicamente di essere omosessuali nell’Egitto che condanna a rischio vita specie se si è poveri e socialmente deboli? La sfida del regista sembra quella di creare nel tempo dei personaggi, delle figure cioè che esprimano nella propria esperienza una dimensione storica e collettiva. I paradossi e le profonde ingiustizie di un Paese intero e in qualche modo anche le ragioni delle sue rivoluzioni e di una resistenza che nonostante torture e polizie speciali continua a sfidare il regime.
Le giovani generazioni mai stare bambine sono finite macinate come il ragazzo Omar protagonista del film di Allouache, povero pure lui, la testa sbiondita e il coraggio moltiplicato dalle pasticche «Madame Courage» che come altri ragazzi algerini si cala ogni giorno per rubare, aggredire, ma anche sognare l’amore proibito con una sua coetanea e un’altra vita lontana dalla madre a cui i telepredicatori islamici come a tanti altri hanno lavato il cervello. Per Omar non c’è rivoluzione, ma un fuoco d’artificio solitario. Eppure l’essenza di quel Paese, dei quartieri di Algeri a cui è stato tolto tutto, lavoro e speranza la racconta bene. E anche il perché del desiderio di una rivoluzione.