Chi è quel misterioso signore che una limousine bianca, guidata da una bionda dama, conduce ogni giorno da casa al lavoro? L’automobile viaggerà per Parigi l’intera giornata, l’esterno nascosto dai vetri oscurati è duplicato dalle telecamere sugli schermi all’interno, paesaggio immateriale di una realtà virata in verde acido. La limousine è un ufficio, un rifugio, un teatro di posa. L’uomo organizza il suo piano di lavorazione, si traveste, si trucca, scende, attraversa una possibile vita e riparte. L’entr’acte, l’intervallo nei suoi diversi passaggi, sono i fotogrammi di Jules Marey. Ma il signore in questione si chiama Monsieur Oscar, e allora tutto diventa più chiaro.

Arriva finalmente nelle nostre sale Holy Motors di Léos Carax, presentato allo scorso festival di Cannes è stato subito il colpo di fulmine per tutta la critica sulla Croisette, e la Palma d’oro del cuore, anche se il «verdetto» finale lo ha ignorato (scelta che ha tolto molti punti negli indici di gradimento al presidente Nanni Moretti). Tredici anni dopo Pola X il ragazzo impossibile del cinema francese, che allora aveva promesso di non fare più cinema, ritorna. E pure se nel mezzo c’è stato il cortometraggio Merde – nel film collettivo Tokyo!, il cui personaggio, il Signor Merda torna anche qui – ha mantenuto la sua promessa. Perché questo film, una variazione sismica nel sistema delle immagini, è una dichiarazione magnifica e commuovente di addio a un certo modo di fare-cinema a cominciare dal suo, l’infinito visionario di Les amants du Pont Neuf (91) salvato dall’intervento del governo francese, oggi totalmente impensabile tra rete di formati, logiche della coproduzione, letture obbligate del mondo che governano il sistema cinematografico.

Monsieur Oscar, che è Denis Lavant, attore di performance totale, e compagno di avventura di Carax dai primi film, diventa di volta in volta un mendicante, una creatura cyber, un killer, un vecchio moribondo, un operaio di Motion capture, un suonatore di fisarmonica, il padre, un povero, e nella città Lumière attraversa tutti i generi cinematografici e dell’immaginario. A ogni tappa lo aspetta una donna, un’altra storia possibile. «C’è qualcosa che non sai», dice il signor Oscar a Jean/Kyle Minouge. La malinconia è uno sguardo noir, «Who Were We» canta lei struggente e biondissima Vertigo, sul tetto della Samaritaine. Nel grande magazzino parigino sono rimasti solo moncherini di manichini e stucchi che cadono dal soffitto. Pont Neuf è un punto lontano, un salto nel vuoto senza ritorno. La sequenza è emozionante fino alle lacrime: azione e vita, le tracce di un’autobiografia dolorosa, di una reciprocità necessaria.

. E intanto è tempo per un’altra storia, un altro film, action movie in stile Hong Kong o melo sussurrato in un hotel di lusso, si può tutto al cinema no? Boys meets girl, c’è sempre un solo inizio, è sempre la stessa storia, infinita e sempre diversa. [do action=”citazione”]I grandi cineasti non sono tali perché sanno filmare: lo sono soprattutto perché sanno che le cose semplici sono sempre le più belle. Ed ecco dunque il piacere sublime del trucco di Oscar, mostrato nei dettagli all’interno della limousine, la preparazione dell’attore e il suo sfinimento attraverso la fisicità scolpita di Lavant[/do]

Dalle fogne, dove marcia un esercito di derelitti esce Monsieur Merde, creatura selvaggia e crudele. La modella Kay M. (Eva Mendes) in peplum è la sua preda, il fotografo estasiato vuole unire «la bella e la bestia», l’assistente chiede a Merde: «Hai presente Diane Arbus?» Lui le divora la mano. Un film sul cinema? No, piuttosto «dentro» al cinema, e nella vita. Dalla prima sequenza, con lo stesso Carax sullo schermo che si risveglia e dietro alla porta della sua stanza scopre una sala cinematografica: ci specchiamo nel pubblico con lo sguardo fisso nel vuoto, insensibile a qualsiasi sollecitazione. Dormienti, forse già morti. A fine giornata le limousine rientrano, e nel buio del garage sussurrano i loro pensieri. Sanno di essere destinate a sparire, sono troppo pesanti. L’uomo è tornato a casa, a accoglierlo la moglie e la figlia e due scimpanzé.

La nostalgia però non è la materia di Carax, anche se questo film parla della fine del cinema, e dei suoi mezzi, la macchina da presa e il 35 millimetri risucchiati nell’era del digitale, quella «bellezza dello sguardo» che rischia di scomparire o si è già perduta (Michel Piccoli con una voglia di vino in volto). Se fosse solo questo sarebbe solo retorica, un passo falso di adesione a quel sistema. Nella sua meditazione funebre, che unisce l’uomo e la macchina, Holy Motors è invece uno schiaffo ai riti contemporanei, il «fare-cinema», naturalmente, il suo funzionamento e i suoi discorsi. Spostando un po’ più in là il limite alle mode culturali, delle superfici lisce e compiacenti, la grandezza di Carax è trasformare la provocazione in pensiero.

Nel suo viaggio nella notte – l’autista si chiama Céline, la fantastica Edith Scob – Carax fa esplodere quella libertà dello sguardo negata che è un gesto poetico e politico, il solo possibile (forse) per risvegliare una consapevolezza collettiva. Con tenerezza, umorismo, amore, senso primario di un’estetica che riveli ancora tracce di umano. Si ride molto guardando Holy Motors , e si piange anche, ci si stupisce sentendosi catapultati nell’universo di «vecchi» trucchi in carne e ossa, senza effetti speciali, con la fiducia nell’invenzione. Non è questione di tecnologia non solo almeno, le grosse limousine come le vecchie macchine da presa che saranno sorpassate dai formati digitali. Qualunque mezzo raffinatissimo non vale nulla senza la potenza di un Denis Lavant, e senza il trasformismo della sensibilità e dell’invenzione. Carax non si mette in cattedra, ci conduce in questa sua storia del cinema, dalle origini al digitale, tra fantasmi e passioni con paradossi fantasy, il gusto dell’assurdo che aveva già sperimentato nel corto Merde, un sentimento ludico e, soprattutto, il gusto della libertà. Narrativa, di messinscena, visuale, resa possibile anche dal supporto di produttori come Martine Marignac e Maurice Tanchant.

Digitale e pellicola a questo punto sono solo l’ennesimo pretesto a cui delegare la fine dell’indipendenza dello sguardo e del cuore, della resistenza alle convenzioni. Si può correggere tutto con la tecnologia, ma l’efficacia di un trucco non fa il cinema, la sua potenza, il campo delle invenzioni che contiene. Boys meets girl. E tutto può essere ancora possibile.