Libertà! Sembra gridare un affascinante e inconsueto piccolo film crocevia di sguardi e d’idee dotato di un curatore e di ben otto registi diversi. Un esperimento che in una ventina di minuti esplora e dimostra il potenziale del cinema documentario che lavora sugli archivi alla prova del racconto della pandemia. Le storie che saremo, prodotto da Ginko in collaborazione con sei diversi archivi (Home Movies – Bologna, Paesaggi di famiglia – Cagliari, RI-PRESE – Venezia, 8mmezzo – Livorno, Cinescatti di Lab80 Film – Bergamo, Superottimisti – Torino) e curato da Marco Zuin, è fatto di sei episodi diretti da: Irene Dionisio, Daniele Atzeni, Marco Bertozzi, Claudio Casazza, Martina Melilli e Matteo Zadra, Giulia Cosentino.

Zuin

Da chi e come è nata l’idea del progetto?
Da una mia provocazione lanciata a Chiara Andric di Ginko: perché non provare a raccontare il lockdown a partire dalla memoria? Guardando al passato senza nostalgia ma proprio per riflettere su quel che c’è stato negato. Con uno sguardo critico che metta in comunicazione il presente col passato e col futuro.

Non c’è stato neppure il tempo di seguire la normale trafila per ottenere un finanziamento, giusto?
Giusto: fin dall’inizio voleva essere un’iniziativa libera. Una cosa da pensare e fare senza complicazioni. Senza rivolgersi alle cineteche per motivi pratici: la difficoltà di accesso diretto ai materiali. Lo scambio è avvenuto a distanza, invitando tutti a partecipare in modo volontario, per la voglia di contribuire a un lavoro collettivo. Hanno tutti messo a disposizione il loro tempo e le loro abilità in modo gratuito.
Poi abbiamo pensato che sarebbe stato bello non mettermi in prima linea e contattare altri autori.

Come si è andata definendo l’idea del tuo ruolo da curatore? Quali sono stati i tuoi riferimenti?
L’idea del curatore deriva anche da una forma che era fin dall’inizio ibrida. Ho visto l’opportunità del mio ruolo di tessitore di un filo, facendo poi in modo che ognuno partecipasse con un suo proprio pezzo, ordinando le singole parti in una visione collettiva, pensando anche alle singole opere come autonome. È un lavoro che può stare sul grande schermo ma può essere anche mostrata come insieme di micro installazioni in uno spazio museale.

Quale sarà la formula d’uscita del film?
L’ambizione è di partecipare a un festival. Inizialmente avevo immaginato una distribuzione sul web, con un’uscita periodica in parti. Le cose sono cambiate.

Insisto col chiederti quali son state le idee di riferimento che ti hanno attraversato la mente durante il tuo lavoro.
Diciamo che mi ha sempre colpito come, lavorando su materiali d’archivio, un autore potesse creare nuove storie. Eravamo tutti fermi, immagini nuove non potevamo farne e questo è quello che ci è venuto in mente di fare.
Rispetto all’ordine degli episodi: Mondo nuovo all’inizio si pone una domanda sulla possibilità di fare immagini nuove. Ho trovato suggestivo l’avvio con una marcia militare a riecheggiare la guerra, metafora della lotta al virus. Si passa poi al corto di Atzeni, un paesaggio desolato con una voce aliena che sembra cercare l’ultima forma di vita, che sembra voler fare un reset della memoria. Dopo viene l’apertura di occhi su una leggerezza infantile: dal colpo di fucile che chiude il corto di Atzeni all’animazione di Bertozzi.
Entriamo allora in una dimensione più sospesa attraverso il film di Claudio; una voce femminile ci guida a una riflessione sul ricordo attraverso Pessoa. Il film di Martina poi è senza voce. Un vuoto sonoro che mi fa quasi sentire le voci dei bambini, la voce del vecchio che raccoglie intorno a sé tutta la famiglia: dalle voci sentite alle voci immaginate o forse ricordate. Si finisce poi con l’impeto giovanile di una coppia che si insegue, mossa da un desiderio di rivoluzione, per non accettare per forza quello che ci viene detto, ma rivendicare i propri diritti. Col punto di domanda alla fine del Perché scappi? che rinvia al mondo nuovo aperto all’inizio. Una capsula del tempo, un racconto chiuso in un film puro che lasciamo alle generazioni future per offrire chiavi di lettura alternative.

Atzeni

Cosa hai cercato per costruire il tuo film?
M’interessavano immagini in cui fosse assente l’elemento umano; e poi riprese realizzate da una mano non tanto ferma che potessero simulare la soggettiva di un’entità, un’intelligenza artificiale la definisco io.
Mi sembrava che la realtà virtuale stesse prendendo il sopravvento sulla vita. Ecco allora una mia idea di futuro in cui la vita è sempre meno presente e viene eliminata da questa entità che può essere letta come la realtà virtuale oppure la tecnologia. È l’uccisione del reale che volevo rappresentare con quello sparo finale.

Trovo molto interessante il fatto che nei tuoi film d’archivio torni sempre alla citazione del cinema di genere, soprattutto del thriller, dell’horror e della fantascienza.
Di solito estrapolo quello che m’interessa dagli archivi e poi lo rielaboro all’interno di una narrazione fittizia. La fantascienza è stata certamente il mio riferimento principale, una fantascienza «retrofuturista». Quello che m’interessava era il connubio tra immagini d’archivio che riguardano un passato lontano coniugate col cinema di genere per raccontare una realtà nel futuro.

Il tuo film – forse quello ufficialmente meno autobiografico – mi pare sia quello che nasconde meglio nel suo cuore di narrazione alienata i pensieri e le emozioni dell’autore che lo ha realizzato.
Io non credo che andrà tutto bene e volevo metterlo in modo molto netto nel mio film attraverso un pessimismo e un nichilismo aperti, forse necessari di questi tempi. Vedere in negativo la società fa sempre bene, un certo cieco ottimismo nel futuro non porta a niente, non porta a interrogarsi, non porta a fare opposizione. C’è in me una sfiducia anche nei confronti delle immagini che per me non hanno alcun significato. Sta agli autori costruirne uno.

Casazza

Cominciamo dalla ispirazioni. C’è di mezzo Pessoa.
Sì, il riferimento che subito m’è venuto in mente è stato Pessoa, i suoi personaggi, soprattutto uno. Per esempio in La tabaccheria c’è uno che dalla finestra di casa sua s’immagina il mondo. Non ho usato questa poesia, nel film ho preso pezzi del Libro dell’inquietudine e di altre cose sparse, ma la vera ispirazione di partenza è stata quella. Una poesia molto cattiva. Il film è un racconto personale su come il ricordo diventa sogno.

C’è un primo piano sonoro sulla voce e sui suoni e un’incolmabile distanza rispetto alle immagini.
Per la colonna sonora ho lavorato sui suoni della natura non come illustrazione precisa. Con i suoni e con la musica ho cercato di fare un lavoro di corto circuito dei ricordi. Per la musica Giovani Schievano su mia indicazione ha imbastito il tipo di colonna musicale che cercavo. Con la voce ho accompagnato questo viaggio: all’inizio accompagnamento, poi contraddizione, tenendo un punto di contrasto o di distanza, come dici tu, rispetto alla immagini. Alla non-attrice dicevo: non voglio la voce dentro al film.

Questo film quasi paradossalmente contempera un’istanza politica e una soggettività quasi selvaggia.
Con quello che si è vissuto e si vive ancora c’era il bisogno mio personale di lavorare su queste immagini, e forse anche il bisogno di chi lo vedrà di liberarsi un po’ da questo periodo. Com’è per noi filmmaker perdersi negli archivi, anche per chi lo vede, avevo l’obiettivo di farlo viaggiare. Perdersi in un passato, perdersi in un ricordo, seppure originato da una proiezione, per cercare di lasciar andare un pezzo di presente.

Dionisio 

Qual è stata la base all’origine del tuo episodio?
Avevo già lavorato sull’idea di Mondo Nuovo per il Primo Maggio Torinese. Sono tutti archivi, tranne l’immagine iniziale dello specchio che ho girato io. A me interessava lavorare sul tema del ricordo di un mondo nuovo. Ho cercato di capire quale sia il significato profondo del mio lavoro di regista, il significato di produrre immagini. Ho trovato quello concesso dagli archivi un approccio molto più delicato, invece che dover uscire, mettermi a riprendere. Per me è stato un atto liberatorio.

Mi ha colpito la manomissione esplicita del finale, doppia e doppiamente paradossale: i pixel e il fermo immagine sono due effetti che non sono attuali e che sono operati su immagini del passato.
Sì, è un modo per lavorare sull’archivio, che ha immagini che parlano del passato e parlano al tuo modo di elaborare il passato. D’altra parte però il film si esaurisce nel presente dello schermo ed è quindi anche una serie d’immagini senza nessun tipo di carica simbolica. Personalmente sono in una fase di stallo, sto scrivendo tanto. Dopo tutto quello che è successo trovo l’atto del filmare davvero violento.

«Mondo nuovo» mi fa pensare subito al dispositivo ottico, poi però c’è Aldous Huxley, a maggior ragione per le didascalie del film. Qual è la scelta prospettico-tematica nel titolo?
La mia sensazione è di aver vissuto un cambiamento impressionante, non solo per il lockdown ma proprio personalmente. La nostra generazione pagherà caro quello che è accaduto. Fare finta di nulla mi sembra violentissimo. Mi sono chiesta: in una situazione come questa che cos’è importante fare? Dal mio punto di vista continuare a fare quel che faccio ma con delle domande completamente nuove.
Ho paura: non voglio tornare a essere quella di prima. Però chissà se sarà così.

Il film mi sembra esplicitare il potenziale del documentario, vicino al mondo ma lontano dall’attualità. Nel tuo episodio c’è una forte dimensione onirica. Un sogno che inizia come incubo, un addormentamento davanti allo specchio, poi subito la marcia dei soldati.
Per me era importante iniziare con lo specchio per una serie di ragioni. Si sente un suono d’elicottero, un suono che mi faceva sentire in gabbia, in una situazione distopica. Quello doveva essere uno sguardo sulla sensazione del tempo: aprire con le immagini della guerra e poi partire verso una sorta di mondo nuovo perché una volta si andava alla conquista di mondi nuovi. Ora è come se si fosse ribaltata la prospettiva: non è più l’uomo che va alla conquista del mondo, è il mondo che ti dice: questo lo puoi fare e questo no.
Per me è stato lavorare sull’estrazione d’immagini dell’inconscio. Almeno questo alle immagini glielo possiamo lasciare. È un modo per esprimere il mio disagio, vederlo di fronte a me, poter dire qualcosa. Non è facile.

Bertozzi

L’incipit è falsamente familiare: immagini classicamente d’archivio e un sonoro ahimè molto attuale.
Ai volti e ai corpi di questi protagonisti così felici, ho associato uno messaggio diffuso durante la quarantena. Quasi troppo bello: mi è sembrato proprio, in termini biopolitici, quasi che questi se ne fregassero altamente di un ipotetico grande fratello che controllava le loro vite.

Qual era il materiale di partenza? Come hai operato le tue scelte?
Mi avevano dato solo un film dove si vedeva il centro storico di Rimini, c’erano anche un po’ di scene di mare. Io ho chiesto se potevano darmi qualcos’altro, qualcosa di più antico. Ho poi inventato questo dispositivo: (mi mostra un piccolo cannocchiale ndr), questo l’ho attaccato al telefonino e durante la quarantena ho iniziato a fare qualche ripresa dalla finestra del mio grattacielo.

Mi sono arrivate forti due cose: una dimensione di sogno ossessivo, con questa voce che procede inesorabilmente macinando parole senza tregua; e poi il tema della distanza che è in tutto, nominato, visto e montato; sta anche nella combinazione delle cose.
Cogli bene: la prima si collega a un’attività onirica abbastanza sfrenata nei giorni della pandemia. Ho utilizzato i ricordi della mia infanzia, però hanno un andamento un po’ folle, di accatastamento, come nel sogno. E poi la distanza, hai ragione: sia nel senso dell’anacronismo dei dispositivi, dal telefonino al pathè baby, strumenti familiari entrambi, sia di riflessioni dentro al film, delle lontananze e delle zone sotterranee più oniriche.

C’è forte una sensibile prossimità rispetto ai soggetti dell’inizio, oltre che tra i soggetti ripresi, poi c’è il presente, il diario, che ha un punto di vista remotissimo, dall’alto del grattacielo nel quale vivi: immagini ipermediate, immagini quasi inumane, quasi una negazione di quelle precedenti.
Sì, perché sembrano attenere a un dispositivo quasi carcerario. Quasi un panopticon che ti consente di vedere dall’alto, tutto, camere di sorveglianza rivisitate in questo modo.

L’idea dell’animazione poi è legata con il discorso che fa il film e le sue suggestione, lo svegliarsi che è anche il non riuscire a vedere e il vedere interiore del sonno, del sogno.

Ho pensato subito all’animazione per tre motivi: uno molto pragmatico, Nicoletta Traversa, una dei fondatori di RI-PRESE, è una bravissima animatrice. Secondo, in generale penso sia questa dell’animazione una delle modalità più eleganti e più forti quando riesce nel raccontare ciò che le immagini realistiche non riescono a raccontare. E poi c’è il motivo autobiografico: in un film così intimo in cui parlo di me bambino ci stava benissimo questa cosa, come se mi chiedessi se sono proprio io.

Cosentino

Nel tuo caso come è avvenuto l’assegnazione dell’archivio?
Avevo già lavorato con Superottimisti. Ho scelto di lavorare con loro perché sapevo che poteva esserci quello che cercavo, compresi gli archivi sonori che sono piuttosto rari.

Ecco, ti avrei chiesto in effetti del sonoro.
Mi piace molto lavorare sul sonoro. Di solito inizio ascoltando quello che c’è già come colonna sonora dei materiali. In questo caso quasi nessuno dei sonori era in origine legato a uno dei fondi visivi.

Sul piano letterario, con quali modelli, riferimenti, ispirazioni hai lavorato alla scrittura?

Ho scritto tutto io. Ci sono riferimenti ad autrici che stavo leggendo in quel periodo: Marguerite Duras e Alba De Cespedes. La seconda soprattutto per quanto riguarda la rivoluzione, i suoi scritti poetici sul Sessantotto, invece Duras sulla frammentazione, il ritorno delle immagini, una dimensione di temporalità astratta.

Il tuo è forse l’episodio più classicamente narrativo. Poi a un certo punto si sbatte contro l’astrazione delle immagini illeggibili.

Per la prima volta ho iniziato con la lucida scelta di lavorare su pellicole che avessero delle imperfezioni già all’origine. Cercavo di fare un discorso su un tempo ritrovato. Era anche il tentativo di riprodurre la confusione che vivevamo sia rispetto al presente, ancora di più rispetto al futuro. Mi serviva parlare di questo tempo rovinato, di questa dimensione astratta, di quel che rimane impresso.

Una passione per la storia che diventa passione per la Storia.
Sì, questo fa parte di me: la storia personale che diventa politica e collettiva è fondamentale. Questo genere di materiale deve sempre essere trattato così: se guardo memorie personali le inserisco in un contesto e cerco sempre di farle dialogare con la Storia, anche se è una storia futura.

Melilli + Zadra

L’archivio Cinescatti è a Bergamo.
MELILLI: Proprio per la particolarità della situazione, per le vicende in corso nella città in cui è collocato l’archivio, c’erano una serie di limitazioni, una cornice di rispetto dentro la quale l’archivio aveva bisogno di muoversi. Non sapevano quali famiglie avessero perso qualcuno, e per poter chiamare e chiedere l’autorizzazione c’era bisogno di sapere che la famiglia in questione stesse relativamente bene. Il secondo problema era come parlare di Bergamo, toccando i temi previsti dal progetti ma rispettando il fatto che lì fosse in corso questa enorme quantità di lutti e che si concentrassero sugli anziani, persone potenzialmente presenti nei film. È stato necessario trovare una chiave. Abbiamo scelto di lavorare con una sola sequenza che abbiamo rimontato.
Ecco, come avete ragionato, come riscritto questa scena?
ZADRA: La fase preliminare è stata cercare una sintonia con i materiali, facendo poi i conti con una durata limitata. Bergamo in quei giorni era un luogo invisibile se non per le poche immagini che ci hanno mostrato. Una sorta di buco nero. La «nostra» sequenza era diversa, faceva emergere l’idea di rapporto umano e di racconto e in questa prospettiva ci spingeva a domandarci cosa portare nel futuro.

Cosa ci avete messo di voi e del vostro modo di vivere quei giorni? Cosa ha prodotto in voi stare davanti quelle immagini in quei giorni?
ZADRA Qualcosa d’inconscio.
MELILLI: La famiglia, e la famiglia come elemento fondante di una comunità.
ZADRA: Tutto il nostro orizzonte comunicativo e linguistico è stato risucchiato da una cosa sola, diventata poi paranoia, una gabbia dalla quale era difficile uscire, della quale dopo poco eravamo esausti, senza la possibilità di uscirne. Far emergere una scena in cui invece il centro è il racconto, la divagazione, la gestualità, la prossimità era veramente un controcanto a tutto quello che ci circondava.