Racconta Dyana Gaye che Des etoiles, in gara al Festival del cinema africano di Milano, nasce dal desiderio di filmare un’idea di identità in movimento. «Io stessa non posso dire di essere soltanto senegalese o francese. Direi che sono il risultato di un incontro tra queste due realtà, con dentro anche un poco d’Italia! Oggi, soprattutto nelle metropoli, è difficile pensarsi come il prodotto di un’unica cultura. La diaspora senegalese è radicata un po’ ovunque, è molto organizzata con un forte senso di appartenenza al paese di origine. L’America rappresenta per loro un orizzonte e la terra dei fantasmi della giovinezza del continente africano. Mentre la Francia e l’Europa sono considerate come una tappa …». Eccole dunque le sue «Stelle», personaggi in transito per il mondo costretti dalla realtà che affrontano a abbandonare ogni certezza. Fluttuanti da New York a Dakar, e da Torino a New York, e ancora da Dakar a Torino, incrociando come in una commedia o in una tragedia contemporanea, equivoci, illusioni e disillusioni, incontri inattesi e scoperte importanti.

Sophie ha ventidue anni e arriva una sera a Torino da Dakar. Non parla italiano, cerca il marito, Abdoulaye, ma al suo posto trova molte donne che, come le dicono ridendo, nella vita se la cavano. Un gruppo allegro, festaiolo, alcune sono state le amanti del ragazzo, come la bella parrucchiera che quando vede Sophie grida in italiano: «Abbiamo un enorme problema!»

Lui è andato a New York, stanco della vita italiana, senza dire nulla a casa dove non sanno della sua vera condizione lì … Ma in America senza documenti continua a fare una vita di miseria, sfruttato per 200 dollari al mese, pieno di dolorosa stanchezza.

Thierno invece da New York arriva per la prima volta a Dakar, l’occasione è la morte del padre che il ragazzo ricorda appena. Scopre di avere due fratellini, figli di un’altra moglie paterna, e una cugina che si chiama Dior, longilinea, bella, elegantissima. Mentre la madre, che a Dakar non metteva più piede da vent’anni, ha portato in dono la t-shirt di Obama e qualche oggetto che quasi stona con la raffinatezza della loro casa. E ognuno in questo «altrove» casuale o per scelta – seppure come nel caso dei migranti obbligata – trova o non trova qualcosa lasciando entrare in sé stesso la nuova realtà, conflitti compresi.

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Dyana Gaye anche nel film precedente, Un transporte en commun, scanzonato musical africano, cercava la cifra delle sue immagini nel movimento. Lì era un viaggio in Africa, qui sono le traiettorie migranti di partenze e ritorni. Cosa si aspetta dall’Italia la giovane Sophie che non parla una parola di italiano? Nulla se non ritrovare il consorte per scoprire invece che lui non era quello che aveva conosciuto. E che come le spiega la nuova amica italiana – una luminosa Maya Sansa – si può stare da sole, anche se donne, a differenza di quanto le hanno sempre imposto in famiglia, e amare di nuovo.

Thierno cresciuto in America fa il viaggio opposto e scopre l’Africa, il luogo della Storia e della rivolta, che tanti altri african american come lui non hanno mai conosciuto… Al tempo stesso sua madre vede che il Senegal non è più quello dei suoi ricordi, il paese arretrato che guardava con superiorità lei che lontana ha fatto fortuna.

Il movimento è dunque la cifra dei nostri tempi, e anche se confini, leggi e documenti vogliono impedirlo appare una scommessa ineluttabile. Le cose lontane sono vicinissime o possono sempre diventarlo.

Dyana Gaye non cerca però di dimostrare nulla ma con sensibile dolcezza accompagna i suoi personaggi nei loro frammenti di vita, nelle delusioni e nei momenti di gioia, complicità, sospetti reciproci. Ci dice del loro modo di vita e del sapere che è adattarsi a ogni situazione, mescolare una lingua all’altra. E li lascia liberi senza chiudere nessuna delle loro traiettorie. Le storie vivono nello spazio fisico in cui si trovano, complice la fotografia di Irina Lubtchansky che illumina le diverse realtà secondo gli sguardi che vi si posano; l’indifferenza americana per Abdoulaye, la scoperta meravigliata per Thierno che quasi assorbe nelle sue pupille ogni dettaglio di Dakar. Alla regista, come a una maga amorosa, basta un dettaglio, un gesto, un sguardo, un silenzio, un sorriso per comporre la trama emozionante del suo cinema.