Su David Bowie si è detto e scritto di tutto. Forse, iconograficamente, il personaggio più eclettico e al tempo stesso più riconoscibile del rock, nonostante i suoi mille volti, le sue infinite trasformazioni. Una vita vissuta appieno, un senso artistico assoluto che lo ha portato a «occuparsi» oltre che di musica, anche di cinema, tv, pittura e via dicendo. E i momenti salienti di questa vita sono raccolti nella bellissima mostra David Bowie Is che fu inaugurata nel marzo del 2013 al Victoria & Albert Museum di Londra e che oggi, nel suo continuo itinerare, è visitabile – fino al prossimo 13 marzo – presso il nuovo e futuristico museo della città olandese di Groninger.

Ma qui vogliamo trattare un aspetto puramente musicale, quello che lo ha visto accanto ad alcuni dei più noti chitarristi della storia del rock, artisti che nella gran parte dei casi proprio a lui debbono la fama conquistata. Il primo della lista è quello il cui nome e la cui immagine restano indissolubilmente legati al Duca Bianco, anzi a Ziggy Stardust: Mick Ronson. Ex giardiniere in una piccola città del nord dell’Inghilterra, Hull, Ronson ebbe il primo contatto con Bowie durante le session per il secondo album dell’artista londinese (album conosciuto come Space Oddity) ma la vera scintilla scoppiò con The Man who Sold the World. Insieme lavorarono su Hunky Dory, Pin-Ups e nel capolavoro The Rise and Fall of Ziggy Stardust, mentre nel 1972 produssero l’ellepì di Lou Reed Transformer, dove Ronson mise lo zampino anche come musicista, alla chitarra e al piano, come corista e come arrangiatore (suoi gli archi di Perfect Day). I due non si lasciarono molto bene tanto che in un’intervista del ’76 Ronson ammise di non aver più sentito l’ex amico David. Tra le sue innumerevoli collaborazioni fino alla sua morte, nel 1993 all’età di 46 anni, Ronson ha annoverato Mott the Hoople, Bob Dylan, Van Morrison e Morrissey per il quale produsse l’album Your Arsenal, e che spese parole di miele verso questo grande artista.
Al suo posto per il tour di Diamond Dogs Bowie chiamò Earl Slick che lo accompagnò anche per gli album Young Americans e Station to Station, per poi ritrovarsi insieme nel 2012 durante le registrazioni di The Next Day, l’ultima fatica del Duca Bianco prima del recentissimo Blackstar.

Durante il citato tour di Diamond Dogs oltre a Earl Slick c’era un altro chitarrista che ha legato il suo nome e la sua carriera a quello di David Bowie, Carlos Alomar, il quale, tra ruoli più o meno importanti ha suonato su ben dodici dischi del rocker di Brixton. Una curiosità: Alomar appare anche come batterista nel singolo Boys Keep Swinging dall’album Lodger.

Quattro mostri sacri della sei corde hanno incrociato per qualche tempo i destini con il camaleontico artista inglese: Robert Fripp, Adrian Belew, Stevie Ray Vaughan e Nile Rodgers. Il primo, leader carismatico e incontrastato dei King Crimson, sperimentatore instancabile e inventore dei Frippertronics e dei Soundscapes, ha collaborato con Bowie per due tra i titoli più importanti della sua carriera, Heroes e Sacry Monsters (and Super Creeps), regalando il suo inconfondibile stile e suono a brani mitici come la stessa Heroes, Fashion o Teenage Wildlife.

Per rimpiazzare Fripp chi meglio di Adrian Belew? Su consiglio di Brian Eno Bowie chiamò Belew, che poi si sarebbe unito proprio a Fripp per i nuovi King Crimson, e con lui registrò il già citato Lodger. Di quelle session il chitarrista inglese raccontò un gustoso retroscena: «Il disco in origine si sarebbe dovuto intitolare Planned Accidents (Incidenti pianificati, ndr) e l’idea era quella di farmi suonare senza aver ascoltato nulla prima. Quando arrivai in sala di registrazione e indossai le cuffie chiesi in che tonalità fosse il brano. Una voce mi rispose: ‘Non preoccuparti della tonalità, quando senti il clic comincia a suonare…’».
L’album Let’s Dance rappresenta una summa del «chitarrismo bowiano», per così dire. Il disco, che a oggi resta il più venduto dell’intero catalogo del Duca Bianco, fu prodotto da Nile Rodgers, chitarrista degli Chic, il quale diede vita a molte della parti di chitarra ritmica, e vide la presenza in varie fasi sia di Carlos Alomar che di Earl Slick, ma soprattutto fu la sei corde di Stevie Ray Vaughan a regalare alcuni momenti indelebili del disco, come gli assoli sulla title-track e su China Girl, che, tra l’altro, ebbero un grande effetto anche sulla carriera del bluesman statunitense.
Una meteora, apparsa giusto lo spazio di un disco e di un tour, quella di Peter Frampton, chitarrista inglese di estrazione blues molto noto negli anni Settanta quando un suo doppio live vendette milioni di copie. Frampton, ex compagno di scuola di Bowie, non ebbe mai modo di collaborare con l’amico fino agli anni Ottanta quando fu chiamato per le session dell’album Never Let Me Down e per il successivo Glass Spider Tour.

Ne resterebbero ancora molti, alcuni hanno lasciato un’impronta altri sono passati come acqua sotto i ponti, ma l’ultimo che vogliamo citare è Reeves Gabrels, musicista di estrazione avanguardista che ha collaborato con David Bowie a più riprese tra il 1987 e il 1999, in album come Outside, Earthling e Hours…, ma soprattutto è ricordato per il non particolarmente fortunato progetto Tin Machine.