Qualcuno ha detto che i classici sono tali perché stendono le proprie idee a fondo nel passato, senza esser passatisti, interpretano il loro presente come se già fosse passata tutta la distanza di sicurezza necessaria per avere sguardo d’insieme, e lanciano sonde nel futuro che non rischiano alcun crash. E aggiungeremmo anche che uno scrittore oggi un po’ dimenticato, ma necessario come il marsigliese Jean Claude Izzo, scrisse una volta che è al futuro che bisogna fare domande. Perché senza futuro, il presente è solo disordine. Quanto appena segnalato vale anche per certe incisioni storiche dal mondo della popular music che oggi tutto si possono considerare, tranne che exploit più o meno casuali di effimera creatività giovanile. Parafrasando le citazioni iniziali: erano classici già nel momento in cui nascevano, avevano fatto tesoro di molte schegge di culture musicali (e non solo) precedenti, avevano già impostato sostanziose dosi di domande al futuro. Prendete l’allegorico Selling England by the Pound dei Genesis di Peter Gabriel, il misticheggiante Close to the Edge degli Yes, l’imprendibile e dolente The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd. O il labirintico, dolcissimo e feroce assieme In the Court of the Crimson King. Uscito esattamente cinquant’anni fa, il 10 ottobre del 1969, lo stesso anno delle ultime fiammate di buone vibrazioni da Woodstock e del contrappasso del livore assassino di Altamont.
CLASSICO
Primo disco ufficiale e immediatamente «classico» da una formazione che c’è ancora, mezzo secolo dopo. E che ha cambiato così tante mute di pelle e squame rock da ritrovarsi oggi, per logica di paradosso assai consona allo spirito del leader Robert Fripp, identica alle origini, e completamente diversa. I King Crimson ci sono ancora. Sono un settetto di poderoso impatto con tre batterie: inusitato, nel rock. E cinquant’anni dopo, i brani simbolo di In the Court of the Crimson King risuonano ancora nel catalogo infinito di pubblicazioni dal vivo della creatura musicale di Fripp, e dunque pressoché in ogni concerto. Il 25 ottobe uscirà anche un cofanetto speciale di celebrazione. In Live in Mexico, monumentale e recente triplo cd dal vivo, sono presenti quattro brani su cinque del disco del ’69. Evidentemente avevano radici forti, presa saldissima sul loro presente, antenne perfettamente tarate sul futuro. Un futuro che siamo oggi noi, e anche chi verrà dopo di noi. Perché i classici sono scontornati dal tempo, pur sapendoci fare perfettamente i conti.
Dunque potrebbe aver ragione il critico musicale Edward Macan, quando ha scritto che il disco del ’69 «potrebbe essere l’album di rock progressivo più influente mai pubblicato». In the Court of the Crimson King nacque tra il giugno e il luglio del ’69. Non fu una creazione estemporanea, né una benedizione un po’ acida caduta dal cielo, come ama pensare certa critica più sentimentale che mette il progressive rock delle origini su una sorta di altare iperuranio. Prima dei King Crimson ci fu The Cheerful Insanity of Giles, Giles & Fripp: la «allegra punta di follia», dunque, di due Giles, Peter, bassista, e Michael batterista (poi nei Crimson), e del lunatico Mr. Fripp in persona. Psichedelia ineffabile, molto colorata e molto alla «Alice oltre lo specchio», quelle filastrocche sghembe che piacevano tanto anche a Syd Barrett dei primissimi Pink Floyd.
UNA NUOVA CREATURA
La nuova creatura, il Re Cremisi, nasce con altra forza, altra determinazione, altre mete. Intanto Fripp si mette in contatto con un altro bassista e vocalist, Greg Lake: hanno avuto lo stesso insegnante di chitarra, Greg ha talento e una voce splendente. Si porta dietro Michael Giles, che è già un batterista raffinato, con un tocco «jazzy» difficile da trovare all’epoca. Poi c’è Ian Mc Donald, eccellente fiatista e tastierista, che a sua volta porta in dote un ragazzo abilissimo con la scrittura, il poeta Pete Sinfield ansioso di mettere in musica i suoi testi: è lui a dare il nome, King Crimson. Ha studiato la cabala, la simbologia dei tarocchi, il buddismo, la psicologia junghiana, il misticismo sufi. È un pozzo di sapere «altro».
Dopo mesi e mesi di prove in una scantinato, i King Crimson debuttano il 9 aprile allo Speakeasy di Londra, la voce si sparge. Jimi Hendrix li ascolta al Revolution Club, e dichiara: «Sono il miglior gruppo al mondo». E non hanno ancora inciso una nota. La botta finale arriva prima di In the Court quando i Rolling Stones li chiamano ad aprire il loro concerto a Hyde Park per commemorare Brian Jones: si trovano davanti seicentomila persone, e loro scatenano una tempesta di suono intelligente e spiazzante, per quaranta minuti. Registrazione poi saltata fuori, peraltro. Alla fine la gente è frastornata, incuriosita e felice.
IN STUDIO
È arrivato il momento di incidere. Wessex Sound Studios, un mese di session, dal 21 luglio al 21 agosto, dopo aver provato il Morgan Studio: il loro manager per garantire tempo e risultati veri si ipoteca la casa, carta bianca al gruppo. La copertina, iconica e celeberrima, con il faccione grottesco del «re cremisi» urlante la disegna Barry Godber, pioniere della programmazione per computer. Morirà poco dopo averla firmata quattro mesi dopo, a ventiquattro anni: ancora oggi il bozzetto è su una parete di casa Fripp.
La concentrazione in studio è altissima, uno dopo l’altro nascono i cinque brani capolavoro. Fripp, nella sua superbia altezzosa lo sa, e da allora non farà nulla per nascondere il fatto di conoscere esattamente il valore di quanto scrive. Un passo oltre i capolavori colorati finali dei Beatles. Un disco come è stato scritto, bipolare: una prima parte rabbiosa e tesissima, a descrivere l’insopportabile disarmonia del mondo e un futuro piuttosto sinistro a venire, la seconda incantata e lunare. Parte 21st Century Schizoid Man, un riff ascendente ripetuto, con il bending sulle corde sempre più acuto e in dissonanza di Fripp, e la voce filtrata di Lake canta agghiaccianti storie premonitrici: «Un bagno di sangue, filo spinato/la pira funebre dei politici/innocenti stuprati con fuoco al napalm/Uomo schizofrenico del ventunesimo secolo/semenza di morte/l’avidità cieca degli uomini/I poeti muoiono di fame, i bambini sanguinano. L’uomo schizofrenico del ventunesimo secolo non ha nulla di cui abbia veramente bisogno». I Talk to the Wind è un’oasi stranita, una ballad apparentemente semplice che nasconde in realtà complesse stratificazioni ritmiche e accordali, Epitaph un instant classic del rock progressivo sinfonico, una scatola cinese che nasconde molte stanze segrete, con una sorta di ratio superiore che governa le dinamiche in continuo mutamento.
La seconda facciata inizia con il sussurro di Moonchild, quasi una dolcissima parafrasi della gershswiniana Summertime, ma diventa progressivamente una complessa, inusitata improvvisazione jazzistica: un orecchio alle note classiche contemporanee, uno all’avantgarde jazz. Il brano che intitola, con massicce dosi di mellotron a simulare intere sezioni orchestrali e un ritornello che, ascoltato una volta, non si dimentica più, si muove invece in quei territori inquieti e magniloquenti che decenni dopo definiranno «symphonic prog», la via intuita e non portata a compimento da Moody Blues e Procol Harum. Durerà poco, la formazione che incide il disco d’esordio più convincente di sempre. I King Crimson fanno spesso la muta. Ma risuonano ancora, quelle note. Nel Reame del Re Cremisi il passato è il futuro. E viceversa.