Sono passati due anni dalla scomparsa di Pino Daniele, una sparizione improvvisa quasi con la chitarra fumante ancora in braccio, ma la sua musica non ha smesso di accompagnare le nostre giornate, restando profondamente radicata a stagioni inebrianti. Così lo smaliziato regista televisivo Giorgio Verdelli, autore della serie Unici su Raidue, ha deciso di raccontare il coetaneo amico musicista nel docufilm Pino Daniele. Il tempo resterà che verrà presentato al teatro San Carlo di Napoli il 19 (la data di nascita del musicista) prima di andare nelle sale dal 20 al 22 marzo, distribuzione Nexo digital e Rai Cinema.

Lo ha fatto andando in giro per i luoghi della città, calpestando le pietre porose, infilando soavi squarci marini, mettendo insieme esibizioni live e dichiarazioni, video privati e le parole di tanti amici che hanno condiviso un pezzo importante di strada con il compositore e chitarrista napoletano, l’unico italiano invitato a Night of the Guitar, un galà internazionale di fine anni ’80 (con Manzanera, Krieger, West, Hunter, California).

In modo emozionante si saltella dagli esordi («James, voglio sunà insieme a vuie di Napoli Centrale; Ma è tiene ‘e sorde pe t’accattà ‘nu bass?») in Galleria alle ultime prove con l’Orchestra Nazionale dei Conservatori, dalla passione smisurata per il suo strumento («io devo accarezzarla tutti i giorni la chitarra, saccio sulo sunà») alle innovazioni nel linguaggio stradaiolo e carnale in quelle liriche diventate poesie mandate a memoria e ripetute come inni da diverse generazioni grazie a un corredo straordinario di immagini – molte delle quali mai mostrate finora (come la registrazione domestica col velocissimo Al Di Meola o quella a casa Troisi coi primi accenni di Ho bisogno di te) – ottenute anche con la collaborazione della famiglia di Pino.

Se la band storica di Vaimò, il tour del 1981 poi riunitasi nel 2008, formata da Joe Amoruso, Tony Esposito, Tullio De Piscopo, James Senese, Rino Zurzolo rievoca episodi e situazioni, si rivedono anche i moltissimi collaboratori internazionali, da Eric Clapton a Wayne Shorter, da Pat Metheny a Salif Keita, in una ricerca perenne di movimento e novità, le sue caratteristiche primarie, insieme all’amore per il jazz, per il blues e il sound mediterraneo. In questo inedito ritratto, il rapporto intimo e profondo con la città si lega anche ai ricordi di Peppe Lanzetta ed Enzo De Caro, Ciro Ferrara e Peppe Servillo (ma la lista è lunghissima) fino a giungere alle ultime generazioni il rapper Clementino e i nuovissimi Maldestro e Roberto Colella, tutti concordi nel riconoscere l’influenza importante e ingombrante del maestro, come Stefano Bollani, Ezio Bosso e Giuliano Sangiorgi a sottolineare la precisione da orologio svizzero delle sue composizioni con abbondante uso di settima aumentata, un accordo tipico della canzone napoletana classica.

In questo modo l’improvvisazione scat di Pino nel duetto con Pavarotti si unisce alle rare immagini del concerto in piazza Plebiscito del 19 settembre 1981, davanti a 200 mila persone, forse le stesse che si radunano alla notizia della sua fine e intonano una versione da brividi di Napule è.