Un tempo le percussioni e i canti collettivi si usavano in campagna per celebrare il raccolto del frumento, come buon augurio e ringraziamento. Di quella memoria contadina è imbevuto Alfio Antico, pastore di Lentini fino a 19 anni, maestro del tamburo a cornice, lo strumento primitivo che la nonna Ciuzza suonava per alleviare la solitudine, facendo sognare con quelle molecole d’aria fluttuanti il ragazzino che aiutava la famiglia nei campi. Oggi Antico, un destino nel nome, è un musicista di talento, originale e sincero, radicato nella grande tradizione popolare siciliana, rivissuta e modernizzata con l’aiuto del figlio Mattia e di un valente cantautore etneo, Cesare Basile, produttore del suo ultimo album intitolato Trema la terra, pensato e realizzato prima del Covid 19, eppure travolto nella promozione e pubblicità da questa epidemia che sta scuotendo dalle fondamenta il nostro vivere civile.

MEZZORA di musica insolita e rapinosa dove i cicli stagionali con le loro abitudini (la vendemmia, il pascolo, lo sbocciare delle rose, l’acqua sorgente del fiume) si fondono con un’elettronica appassionata, col rumorismo d’ambiente, con una fantasia sonora resa sfavillante da testi in siciliano calloso e difficile («ozza ozza Jaddinazzi/Pirfiduna zauddazzi/Crapazzi virmminusi/ ‘Nfistati na ginia»), un altro filo diretto con la natura atavica di quel patrimonio di favole, detti, racconti evidenziato dalla voce incantata di Alfio. Al culmine di una carriera lunga e ricca di riconoscimenti, sui palcoscenici teatrali con Scaparro e Albertazzi, in colonne sonore cinematografiche per Wenders e Scimeca, Antico è stato scoperto da Eugenio Bennato nel 1979 entrando a far parte di Musica Nova e poi andando avanti da solo lungo i crinali della musica etnica (collaboratore di De Andrè, Capossela, Dalla, Sollima), ogni tanto lavorando con la concittadina catanese Carmen Consoli e tutto il gruppo della Narciso Records, invitato in fortunati tour internazionali, provando e sperimentando senza mai dimenticare il suo passato, evocato molto spesso in questo album, tra la spiritualità da sciamano (Pancali cucina), la triste cadenza jazzata (Trema la terra), i suoni notturni nel fienile (Nun n’aiu sonnu) e la filastrocca da venditore ambulante (Pani e cipudda).

«CANZONI che ho nella testa e nei quaderni da tempo, forse il primo disco scritto e nato quasi interamente in casa e sviluppatosi attraverso i suoni e i ricordi. Ci sono le pelli, le onde, i racconti arcaici e le radici» confessa. Tutto è cominciato con quel rotondo legno lavorato, con la mano che danza sulle pelli, con la sacralità del tamburo coi sonagli, elemento primordiale. «Il tamburo è la voce del mondo, il ritmo della nascita e della morte, della festa e del lavoro: attraverso l’unione di un setaccio per il grano e la pelle di un animale morto si celebra ancora una volta il miracolo della comunicazione tra il visibile e l’invisibile – ha dichiarato in un’intervista- Ne possiedo una ottantina (da 70 cm a 1,20 metri di diametro). Li ho realizzati tutti io. Sono ricamati, disegnati in punta di coltello. Mi metto a ricamare quando non trovo l’ispirazione per una canzone. Il più importante è il Barulè, baronessa, che era il nome di una pecora alla quale ero molto affezionato e che morì per malattia. Il mio pastore mi chiese di buttarla via, io invece conservai la pelle, la lavorai e la trasformai in tamburo. Fu il primo di una lunga serie».

ULTIMO DEPOSITARIO di un sapere tradizionale, autentico homo faber, Antico è provvisto di superba tecnica strumentale, con l’invenzione del trillo (particolare utilizzo dell’attrito del dito sulla pelle per fare risuonare i sonagli), ancora oggi studiata e imitata. Tuttavia l’eco del folklore tradizionale, delle sagre paesane, di quella natura incontaminata respirata a lungo vivifica i suoi brani, rendendo vicino e tuttora affascinante quel fantastico mondo bucolico, ricreato tra i campanelli degli ovini e le piccole percussioni artigianali e lanciato con grande abilità nel futuro.