Il ritardo dell’impiego dei fondi stanziati dal «Piano nazionale di ripresa e resilienza» (Pnrr) continua ad essere la spina nel fianco del governo Meloni. Lo ha confermato ieri l’Economic Outlook dell’Ocse. secondo il quale la «crescita modesta», e per di più in calo, del prodotto interno lordo (1,2% quest’anno, 1% il prossimo), nonostante il recente calo dei prezzi dell’energia e il previsto ma non scontato rafforzamento della spesa dei fondi stanziati a livello europeo.

L’ANDAMENTO della crescita, prodotta anche dal lungo rimbalzo del Pil crollato a meno 8,9% nel primo anno della pandemia (2020), potrebbe subire tuttavia alcune ripercussioni negative causate dal mancato pieno impiego di fondi europei. Verrebbe cioè meno la «leva» necessaria per rilanciare gli investimenti anche privati e per abbassare gli interessi sull’alto debito di cui i custodi del vangelo neoliberale di Parigi raccomandano la diminuzione.

«LA SPESA DEI FONDI è in netto ritardo, con una spesa cumulativa alla fine del 2022 inferiore di circa il 50% ai piani di spesa iniziali, il che riflette principalmente i ritardi nell’attuazione dei progetti di investimento pubblico – sostengono gli economisti dell’Ocse – Le priorità dovrebbero essere la rapida sostituzione di progetti non fattibili con altri fattibili e il rafforzamento della capacità della pubblica amministrazione di gestire in modo efficiente e realizzare i progetti di spesa pubblica previsti dal Pnrr».

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OBIETTIVI RETORICI che vanno confrontati con i dati reali dell’attuazione del Sacro Graal dell’economia italiana. Secondo i dati di Openpolis al 12 maggio 2023 l’Italia aveva speso complessivamente 25,7 miliardi delle risorse disponibili del Pnrr rispetto al totale di 191,5 miliardi da investire entro il 2026. Le risorse spese dal 1 gennaio al 12 maggio 2023 sono state solo 1,2 miliardi sui 33,8 miliardi di euro programmati entro l’anno in corso. Rispetto ai suggestivi dati macroeconomici che hanno accompagnato le fantasie dell’intero sistema, anche politico, la situazione è quantomeno dissonante.

DA OGGI CI SONO 7 MESI e mezzo di tempo, entro il 31 dicembre, per spendere 32,7 miliardi di euro. Una cifra notevole da erogare in un tempo così limitato. Sull’esito politico di questa partita pesano diversi fattori: la complessità dei processi burocratici della pubblica amministrazione; la carenza nelle amministrazioni locali, in particolare quelle piccole del Sud, delle competenze per progettare e rendicontare. Paradossi di un piano che vorrebbe liberalizzare e sburocratizzare ed è stato costruito sull’enfasi dell’expertise e della meritocrazia. Difficoltà che colpiscono i territori che avrebbero di più bisogno di ricevere fondi per ridurre le diseguaglianze economiche e sociali con il resto del paese.

I CONTRACCOLPI del mancato impiego dei fondi sulla crescita, oltre agli altri rischi legati alla congiuntura internazionale, «sono sostanzialmente bilanciati» dai «risparmi accumulati dalle famiglie rimangono elevati». Dunque, non solo i salari resteranno «moderati», e taglieggiati dall’inflazione (per l’Istat al netto dei beni energetici importati, si attesta per il 2023 al 6,6% e per il 2024 al 2,9%). Nell’attesa che qualcuno tra Roma e Bruxelles sblocchi il problema dei fondi questo significa inoltre che la crisi sarà pagata dai risparmi delle famiglie e dai salari dei lavoratori. In prospettiva, ha aggiunto l’Ocse, si prepara un ritorno dell’austerità per ora sfumata tra la retorica e le incertezze della «ripresa». «Negli anni a venire – scrive l’Ocse – sarà necessario un maggiore risanamento dei conti per aumentare il rapporto debito/Pil lungo un percorso più sostenibile». Prospettive già anticipate dalla Commissione Europea e contenute nei progetti di riforma del «Patto di stabilità e crescita» dal 2024. Oggi il debito è al 140,7% del Pil mentre il deficit scenderà dall’8% del Pil dello scorso anno al 4,1% del 2023 e dovrebbe calare al 3,2% nel 2024. In più, la politica di aumento dei tassi di interesse condotta dalla Banca Centrale Europea (Bce) sta aumentando il costo degli interessi pagati sull’ampio stock del debito pubblico. Un problema non da poco in questa situazione precaria. Dal governo sono arrivati commenti soddisfatti. Per il ministro del «made in Italy» Adolfo Urso l’Ocse avrebbe «certificato che noi siamo cresciuti più di tutti le altre potenze occidentali. Una volta tanto abbiamo fatto di più e meglio degli altri grandi attori economici». Il nazional-capitalismo, anche in questi casi, può creare illusioni di corto respiro.

VA ANCHE RACCONTATA la superficialità di molti commenti delle opposizioni, tutte tarate sulla critica ai ritardi del governo, e poco sensibili a una lettura più strutturale del «piano» concepito prima dal «Conte 2» e poi da Draghi. Basti qui un sintetico rimando alle osservazioni generali fatte dall’economista Gianfranco Viesti nel libro «Riuscirà il Pnrr a rilanciare l’Italia?» (Donzelli, si veda l’intervista a Il Manifesto 13 maggio). Il Pnrr « manca di una visione di politica industriale: sembra partire dall’idea che basti potenziare la domanda per ottenere un sufficiente sviluppo dell’offerta interna – scrive – Allo stesso modo, al suo interno appare meno centrale il contrasto agli squilibri sociali che in misura consistente sono stati fra i peggiori danni prodotti dalla crisi».

L’IMPIEGO dei fondi è in ritardo, la capacità di gestirli è in crisi. Il problema di fondo resta il progetto neoliberale di società. Di questo sono in pochi a parlarne.