Se New York e Parigi rappresentano l’immaginario, il Cilento e l’Abruzzo sono invece la storia, la terra, la musica e il movimento stesso di uno dei più potenti romanzi italiani degli ultimi anni. Giuseppe Di Fiore con Quando sarai nel vento (66thand2nd, pp. 510, euro 18) riesce nell’impresa di dare forma a un’epica romanzesca tanto classica quanto sperimentale, un intreccio puro di storie che prende la forma a tratti esotica, a tratti algida di un discorso fortemente connotato linguisticamente.
Perché se l’idea del libro si avvia intorno alla vicenda di Abele che dal Cilento muove i primi passi, la forza del romanzo è tutta in una lingua straripante eppure mai debordante, anzi una lingua che aiuta e porta il lettore pagina dopo pagina all’interno di una narrazione estremamente avvincente e mai edulcorata; infine, ancor meno dedita all’inseguire le piccole mode, i tic della narrativa italiana contemporanea.

DI FIORE rifugge strenuamente dalla bassa diceria dell’attuale per scaraventare con la forza del passato il suo protagonista in una contemporaneità agreste come metropolitana che ricorda sia la grande narrativa errante americana sia la letteratura italiana poeticamente più limpida che dona a Di Fiore compagni di viaggio che vanno da Antonio Pizzuto (Si riparano bambole) fino all’Andrea Gentile de I vivi e i morti (Minimum Fax) per certi versi potenziale parallelo di un discorso letterario comune finalmente vivo e innovativo.

DISPOSTO come su una mappa geografica il romanzo prende la forma di quattro parti, veri e propri elementi ritmici: Bianco, Rosso, Blu e Giallo. Quattro colori che sembrano restituire naturale semplicità a una storia solo all’apparenza caotica e compulsiva, ma che rivela in realtà – con precisione estremamente chirurgica – la tensione di una ricerca, estenuante quanto rivelatrice che il protagonista Abele fa nell’inseguire il padre, o meglio nel rincorrerlo all’interno della sua stessa possibile storia.
Quando sarai nel vento è una narrazione stratificata dentro alla quale i rimandi e i continui incroci spesso tra di loro agli antipodi sono necessari a strutturare e a dare forma a un caravanserraglio di personaggi e visioni sorprendenti che fanno del viaggio una continua e sempre nuova scoperta. Una corsa vibrante dentro e fuori di sé che porta Abele verso quel mondo che si voleva finito, quasi rimpicciolito farsi invece nuovamente e perdutamente infinito.

Abele nella ricerca del padre si fa così carico del mondo stesso sgomberandolo dagli impedimenti di un’attualità dedita a un capitalismo che proprio nella contrapposizione a un ecologismo necessario prima ancora che ideologico, rivela tutta la propria ammuffita decadenza. Il mondo come elemento nuovamente generatore di sogni, visioni e territori alla portata anche di un giovane studente disincantato e al tempo stesso disperato.
Il tentativo di una liberazione e di una fuga al tempo stesso limpide e dolorosamente coraggiose.