Annunciato in pompa magna, come il decreto che farà scendere le società partecipate da Enti pubblici da 8000 a 1000, è dunque stato approvato dal consiglio dei ministri il provvedimento presentato dalla ministra Madia, che dovrebbe riordinare tutto il variegato mondo delle società dei servizi possedute o partecipate dal pubblico.

Appare già evidente che la finalità prima del provvedimento in questione non sta solo nella “semplificazione” annunciata o in un’accelerazione delle privatizzazioni, ostacolando la forma gestionale delle aziende pubbliche, ma, ancor più, nell’idea di costruire un forte controllo politico sulle società partecipate.

D’ora in avanti, le società partecipate dal pubblico saranno governate da un numero molto ristretto di amministratori, se non da un amministratore unico, e viene istituita un’ Unità di controllo sulle società partecipate presso il ministero del Tesoro con il compito di dare attuazione al decreto, comprendendo anche la possibilità di effettuare ispezioni presso gli uffici delle società stesse.

Ci si muove in continuità con un’impostazione per cui la gestione pubblica risponde direttamente al potere esecutivo e si prova ad abbattere le autonomie degli altri poteri e delle altre articolazioni statuali: ciò che si tenta di realizzare, solo per fare qualche esempio, nel ridimensionare il ruolo del Parlamento, con l’abolizione delle Province, nel rendere la Rai subordinata alle scelte del governo e persino con le ultime proposte e nomine “eccellenti”, da Carrai a Calenda.

E’ da almeno un anno e mezzo che viene rilanciata in modo molto forte una nuova strategia di privatizzazione e finanziarizzazione dei servizi pubblici, a partire da quelli locali. Su un impianto legislativo messo a punto con lo SbloccaItalia e con la legge di stabilità approvata alla fine del 2014, si prevede che le risorse incassate dagli Enti locali, in caso di vendita di quote societarie di aziende partecipate dagli stessi, possono essere utilizzate al di fuori dai vincoli del patto di stabilità. E, in sintonia con quel quadro legislativo, promuovendo processi di acquisizione e fusione da parte delle grandi aziende multiservizio quotate in Borsa, sempre più privatizzate, Iren, A2A, Hera e Acea, nei confronti delle aziende di dimensioni medio-piccole, con l’intento che, nel medio periodo, esse arrivino a gestire la gran parte dei servizi pubblici locali, in una logica orientata dalla quotazione in Borsa e dalla distribuzione dei dividendi ai soci.

Quello che si sta delineando è, dunque, un “nuovo” intreccio tra economia e politica, per cui alla prima si consegnano le scelte di fondo del modello economico e sociale e alla seconda, una volta ristabilito un meccanismo di comando e controllo sull’intervento pubblico, un ruolo, del tutto subalterno, di accompagnamento-condizionamento della prima.

Il movimento per l’acqua ha contrastato e continua a contrastare questo disegno; lo facciamo nei territori, con la mobilitazione in contrasto alle nuove privatizzazioni centrate sulle grandi aziende multiservizio e per affermare la ripubblicizzazione del servizio idrico, assieme alle azioni di tutela della risorsa acqua, anch’essa sempre più insidiata dai fenomeni indotti dall’aggressione al territorio e dal cambiamento climatico. Lo facciamo a livello nazionale, rilanciando la nostra proposta di legge di iniziativa popolare per la ripubblicizzazione del servizio idrico, che dovrebbe riprendere la discussione in Parlamento. E ora siamo intenzionati a farlo nella direzione di promuovere sia una proposta di legge di modifica costituzionale per affermare il diritto all’acqua e, più in generale, tutti i diritti fondamentali, togliendoli dal giogo dei vincoli di bilancio, sia una nuova iniziativa referendaria, che vuole abrogare proprio quel provvedimento che incentiva gli Enti locali a dismettere le quote di proprietà pubblica delle aziende che gestiscono i servizi pubblici locali, cioè a privatizzarle.

La nostra iniziativa referendaria, peraltro, vuole esplicitamente costruire una connessione con gli altri movimenti e soggetti che stanno, a loro volta, ragionando su quesiti referendari che aggrediscono questioni di fondo su cui sono intervenute le scelte neoliberiste e regressive del governo Renzi in quest’ultimo anno e mezzo. Il movimento per la scuola pubblica sta predisponendo un’iniziativa referendaria per abrogare le parti più inaccettabili della controriforma della scuola; il movimento contro le trivellazioni petrolifere ha deciso di percorrere una strada analoga per chiedere il pronunciamento popolare contro tutte le trivellazioni, in mare così come in terraferma, oltre gli sviluppi della vicenda referendaria promossa da diverse Regioni; diversi soggetti sindacali, a partire dalla Cgil, sono impegnati in una discussione per valutare l’opportunità di presentare una proposta referendaria sui temi del lavoro e contro il Jobs act.

Si stanno profilando le condizioni perché, nella prossima primavera, si possa sviluppare una vera e propria stagione di referendum sociali – e bisognerà lavorare alacremente e con intelligenza per la sua effettiva realizzazione. Una stagione che coordinata ad unitaria. Fatta salva l’autonomia di movimenti, soggetti sociali, soggettività politiche che potranno eventualmente sostenerla, il punto di fondo e di forza delle iniziative referendarie è mettere al centro i temi del modello sociale e della democrazia: l’uno piegato ad una logica per cui il mercato è l’unico regolatore, l’altra svilita e compressa per renderla funzionale a quell’obiettivo.

Senza sovrapporre referendum sociali e referendum costituzionale, è però evidente che, se si vuol evitare di stare sul terreno plebiscitario che non casualmente Renzi propugna per affrontare il referendum costituzionale, né farsi schiacciare da una discussione tecnicista sul ruolo del Senato, occorre, come suggerito da Gaetano Azzariti qualche giorno fa su questo giornale, far emergere il nesso tra l’idea del suo restringimento e l’abbattimento di diritti sociali fondamentali. Ma di questo avremo modo di tornare a parlare.

* Forum Movimenti per l’Acqua