La nuova edizione del volume di Christopher Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia (Einaudi, pp. 328, euro 22, traduzione di Laura Salvai), permette di proseguire una riflessione non solo sul fare storia ma anche, e soprattutto, sulle ricadute delle iniziative istituzionali che sono dedicate al ricordo di quelle storie. Browning, peraltro, è uno di quegli autori che hanno il pregio, attraverso la nitida ricostruzione di una traiettoria collettiva, di fare piazza pulita di tutta una serie di luoghi comuni, più o meno compiaciuti, che invece tendono a riprodursi all’interno dei dispositivi celebrativi che l’Unione europea ha adottato in questi ultimi vent’anni.

A tale riguardo, fare un bilancio sull’applicazione del Giorno della Memoria in quanto ricorrenza civile, a più di vent’anni dalla sua traduzione all’interno di un applicativo di legge in Italia, è oltremodo impegnativo. Si rischia infatti di cadere da subito nelle tante trappole che qualsiasi evento istituzionale porta con sé, dalla stanca retorica di circostanza fino all’enfasi con la quale si conferisce ad esso significati e funzioni che non gli appartengono. Il rendiconto è inevitabilmente in chiaroscuro.

Da una parte la ricorrenza civile ha permesso di introdurre temi relativi al Novecento che erano rimasti fino ad allora in parziale ombra. Dall’altro, tuttavia, ha assorbito ed esaurito, in una sorta di impropria supplenza, altre questioni di grande rilievo, a partire dalla consapevolezza che il secolo trascorso non può essere ricordato solo ed esclusivamente come l’età degli stermini, essendo stato semmai anche il tempo della formulazione e dell’estensione di diritti quali mai si erano registrati nella nostra contemporaneità.

LA QUESTIONE DI FONDO che lo stesso Browning solleva nel suo testo è infatti il tema della ricorrente coesistenza di barbarie e modernità, a volte nelle medesime persone, come irrisolta endiadi del nostro tempo. Nella concreta attuazione della legge si è poi da subito riscontrato il massiccio intervento dei mezzi di comunicazione, che hanno fatto propria l’intera materia, trasformandola in un segmento dell’immaginario collettivo, a prescindere dai riscontri storici di merito.

Una parte della sensibilità comune che ne è derivata rimanda quindi soprattutto all’investimento, in termini di socializzazione e di popolarizzazione, che i mass media hanno dedicato rispetto a questo rilevante capitolo della storia recente. Non è un caso che le immagini icastiche e metonimiche dello sterminio, destinate pertanto a resistere nel tempo, siano soprattutto quelle che transitano attraverso prodotti di raffigurazione filmica o di ricostruzione finzionale.

L’IMMAGINARIO delle persecuzioni e delle deportazioni è oggi in grande parte depositario di quel fenomeno di mediatizzazione che trova in autori come Steven Spielberg il punto di massima convergenza. Il contrappasso che un tale incedere ci consegna è quello per cui, invece di alimentare una consapevolezza civile, esso ha soprattutto dato forma ad una memoria affettiva, tale in quanto basata sull’identificazione, in maniera pressoché esclusiva, con la rappresentazione della fragilità della vittima indifesa.

Se un tempo i deportati nei lager erano parte del più ampio scenario corale delle tragedie causate dal nazifascismo, al quale si erano efficacemente opposti i movimenti di Resistenza così come l’intero «mondo libero», all’interno di un processo politico di assunzione di coscienza e responsabilità collettive, oggi invece sono divenuti i fiduciari simbolici di un’irrisolta identità pubblica, che si alimenta di un senso di fragilità e impotenza, quindi di grande inquietudine. In essa si riflette soprattutto il nostro sentirci inermi dinanzi al mutamento che accompagna noi stessi, impotenti ed espropriati, al pari di chi ci ha preceduto in ben altri frangenti.

Beninteso, nessun parallelismo tra esperienze altrimenti incomparabili, ma la consapevolezza che nell’esercizio di identificazione del perimetro umano della condizione della vittima totale, deprivata di speranze, le nostre società evidentemente conferiscono dei significati che trascendono le vicende storiche in se stesse, per proiettarla dentro scenari di senso più complessi.

La grande stagione della memoria collettiva, d’altro canto, si è aperta dal momento in cui i testimoni hanno iniziato a parlare della propria esperienza come di una dimensione a sé stante, tale da qualificare il senso stesso della propria esistenza, rileggendola quindi come un nuovo inizio. L’urgenza di lasciare una traccia si accompagnava infatti allo spirito di un tempo sempre meno propenso all’impegno politico collettivo, oramai proclive all’identificazione di rilevanti aspetti delle identità sociali con lo statuto di vittima individuale. Un tema, quest’ultimo, molto impegnativo nonché sensibile, poiché strettamente correlato alla crescente attenzione che da allora in poi è stata dedicata nei confronti di chi ha dovuto subire piuttosto che nei riguardi di chi ha potuto reagire. Al partigiano si è quindi spesso sostituita l’immagine del deportato.

IL DECLINO DELL’AGIRE POLITICO come dimensione collettiva, in una tale prospettiva, porta infatti con sé diversi effetti. Uno di questi è l’affermarsi di una vera e propria cultura sociale dell’emergenza umanitaria, che schiaccia e assorbe qualsiasi discorso di prospettiva. Dai temi dell’acquisizione dei diritti sociali, che è racconto del tortuoso percorso dell’emancipazione, verso l’obiettivo della giustizia collettiva, si torna così alla disintegrazione dei diritti naturali, a partire da quello elementare all’esistenza. Non si parla del come si vive ma di come si possa sopravvivere. Il senso del passato, dentro una tale cornice, si rintraccia quindi nelle sue tragedie epocali.

Del Novecento si perde così la sua natura ambivalente: età del crimine di radice industriale ma anche epoca di una formidabile estensione dei processi di liberazione, personale e collettiva. Sono qui all’opera due paradigmi ideologici del nostro tempo. Il primo di essi è quello che identifica nella vittima il soggetto della creazione di senso storico, ossia di elaborazione di un tessuto narrativo che, guardando ad una certa idea del passato, dà un significato al presente.

Il secondo è il paradigma totalitario – dominante nelle formulazioni dell’Unione europea – che, rileggendo la nostra contemporaneità alla luce della contrapposizione risolutiva, poiché in sé esclusiva, tra democrazie e dittature, sancisce le declinazioni delle prime nel solo liberalismo e delle seconde, in un gioco di perenne dinamica di reciprocità inversa, nel mero rifiuto dell’ordinamento liberale. Soprattutto laddove quest’ultimo è inteso come unico modello accettabile di definizione delle identità collettive e delle relazioni sociali. I germi del totalitarismo sono in tale modo ravvisati in qualsiasi esperienza che non sia riconducibile alla rassicurante visione di una storia senza tempo, tale poiché priva di soggetti collettivi in movimento, sostituiti semmai da astrazioni astoriche quali, per l’appunto, l’individualismo senza soggettività, il mercatismo senza conflittualità e così via. Non è allora un caso che al netto di qualsiasi analisi storica di merito, l’eredità stessa del comunismo venga letteralmente incapsulata dentro questo involucro, essendo vissuta come una sorta di replica (oppure di matrice, dal punto di vista del revisionismo storiografico) di tutte le nequizie di cui si sono macchiati anche i regimi nazifascisti in Europa.

DUE FACCE DELLA MEDESIMA medaglia, in altre parole. Al punto che Auschwitz fu «liberata dalle Forze alleate» (quando invece fu raggiunta dalle truppe sovietiche). Più che nell’esercitarsi contro un’esausta e anacronistica «ideologia comunista» il vero obiettivo di questo modo di procedere è quello di contrapporre individuo a collettivo, privato a pubblico, indicando nei mutevoli moventi dei secondi le radici delle inesorabili sfortune dei primi.
L’intera storia sociale, tuttavia, rischia in un simile costrutto di rimanere completamente schiacciata da un’ingannevole dialettica, tanto seducente quanto falsificante. Quella che nega l’orizzonte di speranza agli oppressi e schiaccia la domanda di futuro in un eterno presente. In quanto essa non ci restituisce il pluralismo delle articolazioni che sono alla base stessa della trasformazione sociale, preferendo alla consapevolezza di esse la rimozione delle discontinuità a favore di una fittizia linearità, dove il principio morale del «bene» dovrebbe affermarsi di contro al «male». E in questo caso, molte premesse rischiano di andare in cortocircuito.