Nell’ultima lettera a Émile Bernard, scritta da Aix il 21 settembre 1906, un mese prima della morte che lo coglierà il 23 ottobre, Paul Cézanne, riguardo alle sue ricerche, si chiede: «Arriverò al traguardo tanto cercato e così a lungo perseguito? Lo spero, ma finché non l’avrò raggiunto, rimarrò in questo vago malessere». Un anno prima, il 23 ottobre 1905, confidava a Bernard: «Ora che son vecchio, a settant’anni quasi, mi accade questo: le sensazioni coloranti che dànno la luce, han finito col produrre in me delle astrazioni, che non mi consentono di riempire la mia tela né di continuare la delimitazione degli oggetti, quando i punti di contatto sian tenui e delicati: ne deriva che la mia immagine (o quadro) è incompleta. D’altra parte i piani cadono gli uni sugli altri (…)». Cerchiamo di tener ben fermo questo ragionamento di Cézanne.

La sensazione interiore, quando si rapprende e concentra come colore, viene registrata o, meglio, realizzata all’esterno in virtù di una corrispondente impronta. Impronta rilasciata come traccia colorata circoscritta, delimitata. È per singole orme o cenni cromatici – «astrazioni» le dice – che si conferisce quella «delimitazione degli oggetti» che Cézanne dichiara di non riuscire a conseguire, con il risultato di ottenere, al contrario, «immagini incomplete». Il risultato della sensazione colorante perseguita ed espressa per astrazioni, mette capo ad immagini che, d’acchito, si mostrano fratte, discordi, sconnesse o mutile. In effetti, questo modo di definire e delimitare per accostamenti di unità cromatiche, richiede un controllo esatto delle tensioni coloranti quali si rivelano integralmente nel loro congiungimento, nel loro contatto interstiziale. Così, diresti, quell’energia compositiva accolta negli interstizi (che insieme legano e distinguono, nella variazione e nella contiguità, un colore e l’altro) risulta virtù capace di conferire all’immagine, nella cifra d’una sua apparente incompiutezza, la norma sintetica della sua tenuta. Il malessere che accusa Cézanne, il rovello delle sue ricerche, nasce, credo, dalla piena consapevolezza di quanto arduo sia il delicato, tenue, archimedico equilibrio delle astrazioni in quel loro reciproco implicarsi. Tale da ottenere all’immagine (al quadro), a mezzo di una disciplina severa e di una procedura inflessibile, solidità e saldezza, concludenza e concretezza.

Altre righe di quella sua ultima lettera dicono la «continua preoccupazione del risultato da raggiungere». Leggiamo: «Ho giurato a me stesso di morire dipingendo (…) sto progredendo nello sviluppo logico di ciò che vediamo e sentiamo con lo studio dal vero, salvo a preoccuparmi in seguito dei procedimenti» che sono, aggiunge «un semplice mezzo per arrivare a far sentire agli altri ciò che noi stessi sentiamo». Cézanne si è posto un compito. Aderire integralmente alla condizione effettuale di che ‘vede la natura’. Pittura è fissare tale vedere elaborandolo come un sistema ‘logico’ da espletare ed eseguire nel momento medesimo in cui si svolge. Nel ‘procedimento’ sta la sua esecuzione. Cézanne lo dice esplicitamente quando, in più e più occasioni, ripete «il racconto della mia cocciutaggine nel voler realizzare quella parte della natura che, cadendo sotto i nostri occhi, ci dà il quadro».

Il quadro, dunque, è natura effettiva, concreta, réalisation e non rappresentazione o immagine o figura. È, propriamente, attestazione, dato, nozione del vedere, endiadi in cui si fondono occhio e oggetto, cioè natura e natura. A Parigi il primo ottobre del 1907 si inaugura al Salon d’Automne, presso il Gran Palais sugli Champs Élysées, una Retrospettiva dell’opera di Paul Cézanne a un anno dalla scomparsa. Il “Mercure de France” pubblica per l’occasione Souvenirs sur Paul Cézanne e Lettres inédites di Bernard. Il 9 ottobre, Rainer Maria Rilke, che visita la mostra numerose volte, scrive alla moglie Clara a proposito di ciò che, a suo giudizio, intendeva Cézanne per réalisation: «il farsi cosa, la realtà spinta attraverso la sua propria esperienza dell’oggetto fino all’indistruttibilità, questo gli sembrava la prospettiva del suo lavoro più intimo».