Anticamente San Clemente, nella laguna di Venezia, era sede del convento dei canonici lateranensi della Carità, ma del complesso è rimasta solo la chiesa romanica, rimaneggiata dopo la peste del 1630 con la costruzione della cappella-ex voto. Sede del manicomio femminile dal 1873 al 1992, l’isoletta è oggi riconvertita nel resort di lusso San Clemente Palace Kempinski.
È proprio qui, all’interno della chiesetta e sul pratino verdissimo che sono installate le tre opere della mostra What are you hiding? May you find what you are looking for (fino al 1 novembre), nuovo appuntamento veneziano per l’artista portoghese Joana Vasconcelos (Parigi 1971, vive e lavora a Lisbona), curata da Nina Moaddel e realizzata in collaborazione con Mgm Macau.
«Cosa stai nascondendo? Che tu possa trovare quello che stai cercando», recita in italiano il titolo, riallacciandosi a quello scelto da Ralph Rugoff, May You Live In Interesting Times per la 58/a Biennale d’Arte di Venezia. Madragoa (adattamento di Valkyrie Octopus) è collocata all’interno della chiesa: un grande cuore pulsante di tessuto, tutto ricamato, in piena ascensione. È la perfetta combinazione tra tecnologia e tradizione artigianale con l’uso delle maioliche portoghesi gialle e azzurre disposte su una struttura a forma di àncora che richiama il Tetris.
«I portoghesi erano navigatori, come i veneziani – afferma Vasconcelos – L’àncora rappresenta il luogo di provenienza, ma anche il collegamento con il grande cuore che è la direzione in cui si va. Il riferimento al Tetris, puzzle game a incastro basato su velocità e ragionamento in cui bisogna incastrare i mattoncini nella giusta posizione, deriva dalla mia esperienza. È un gioco che ho amato molto». Ma è soprattutto alle opere Betty Boop e I’ll Be Your Mirror #1 che è affidato il ruolo di portavoce dei temi legati a identità e genere che appartengono da sempre alla poetica di Vasconcelos. «Giocano sull’illusione che si può essere felici quando si raggiungono obiettivi e sogni». I’ll Be Your Mirror #1, che nel titolo cita l’omonima canzone dei Velvet Underground & Nico (Reflect what you are, in case you don’t know...) parla «delle nostre molteplici identità con gli specchi collocati su entrambi i lati, fronte e retro, all’interno di cornici di bronzo dalla forma barocca, perché il barocco è uno stile che è stato inventato dai portoghesi».
Betty Boop, invece, fa parte della serie dedicata alle scarpe: è realizzata con centinaia di coperti e pentole d’acciaio «di quelle che si usano per cuocere il riso, oggetti riconoscibili ovunque nel mondo». La struttura è molto leggera e propone la forma della scarpa con il tacco a spillo. «È tutto realizzato a mano nel mio studio. È importante, per me, che si percepisca anche il dettaglio, l’imperfezione del lavoro artigianale rispetto a quello industriale. Il ruolo domestico della donna, casalinga, cuoca che si prende cura della famiglia è rappresentato dalla pentola, mentre la forma della scarpa con il tacco a spillo implica l’aspetto seduttivo. Mostro la donna di oggi tra tradizione e seduzione (sexy lady), tra pubblico e privato, simbolo della riorganizzazione della tradizione nel proeittarsi nel futuro. Betty Boop, come Cerentola o Marilyn incarnano il cambiamento del destino».

In queste opere c’è il riferimento alle favole, in particolare Biancaneve e Cenerentola. Quanto è importante la componente letteraria, così come la tradizione orale, nel suo lavoro?
Mi interessano le storie perché si tramandano di generazione in generazione. Ogni tipo di storia, anche le favole che si raccontano, una dopo l’altra, ai bambini. Storie che riflettono e fanno riflettere sulla vita delle donne, soprattutto quelle che non si trovano scritte ma provengono dall’esperienza all’interno della casa e hanno una grande influenza sull’educazione dei bambini.

L’ambiente domestico, infatti, è ricorrente in tutti i suoi lavori che coniugano reminiscenze del ready-made con un linguaggio pop…
Concepisco l’ambiente domestico come un misto tra tradizione, intimità, casa. È un luogo chiuso connesso con la figura femminile: la mamma, la bambina, la zia, la nonna… Al di fuori c’è la vita pubblica che è aperta e più impersonale. Un tempo questa parte esterna era rappresentata dall’uomo. Oggi che le donne stanno occupando sempre di più l’ambiente pubblico, la connessione con la sfera domestica sta diventando sempre più difficile, sia per le donne che per gli uomini. Le mie opere parlano proprio di questa connessione.

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La sua esperienza personale è segnata da una relazione molto particolare con una nonna che disegnava e dipingeva…
La vita di mia nonna Alice è stata diversa dalla mia. Lei non ha potuto inseguire quello che desiderava, come fare l’artista, perché era sposata e il suo ruolo era più tradizionale. Solo molto tardi, quando era già grande, ha potuto dar voce alle sue inclinazioni. Mi ha spronata a prendere coscienza di quanto fosse bello poter fare quello che si voleva. In tre generazioni il ruolo della donna è cambiato moltissimo.

Sua figlia porta così il nome di quella nonna…
Certo, in suo onore! (sorride)…

A proposito della materia e del concetto di accumulo, le sue opere nascono dalla decontestualizzazione di una grandissima quantità di oggetti come ferri da stiro, centrini, assorbenti interni… che vengono riassemblati. Quanto è determinante la serialità?
È molto importante perché conduce all’astrazione. La serialità è il risultato della globalizzazione, dove il singolo non ha più importanza e scompare, ma nel mio lavoro, attraverso l’accumulo, recupero l’individualità e l’identità perché ogni pezzo è fatto a mano.

Nel sovvertire l’identità dell’oggetto del quotidiano lei gli affida un nuovo ruolo, soprattutto in una chiave di rivendicazione femminista. Basti pensare all’immenso lampadario realizzato con migliaia di tamponi interni per le mestruazioni al posto dei tradizionali cristalli («A Noiva»)…
Decontestualizzo e ricontestualizzo: è come un ponte tra passato e futuro. Sono femminista. A Noiva, come le scarpe, è un manifesto che nasce dalla necessità dell’affermazione dei diritti delle donne. Un’uguaglianza che, purtroppo, non le riguarda ancora tutte, nel mondo.

Nel suo studio, sede della Fundação Joana Vasconcelos, ex edificio industriale sulle rive del fiume Tago a Lisbona, lavorano circa 60 persone tra donne e uomini. Come funziona il management di un’attività imprenditoriale così complessa?
Non lo so! L’ho creato intuitivamente per necessità. È una situazione molto particolare, perché avendo numerosi progetti – che spesso hanno dimensioni gigantesche – dovevo avere un’équipe che lavorasse con me. Abbiamo fatto mostre a Versailles (nel 2012 Vasconcelos è stata la prima artista contemporanea e la più giovane ad esporre allo Château de Versailles, ndr.), all’ARoS Aarhus Art Museum, al Guggenheim di Bilbao e in molti altri luoghi immensi in cui le produzioni dovevano essere altrettanto monumentali, cosa non facile quando è tutto fatto a mano.

Dagli anni Novanta ha iniziato a tenere un diario. Che significato ha per lei questa scrittura?
Esattamente dal 1992. Non è un diario che tengo tutti i giorni, o forse qualche volta sì. È una parte di me in cui raccolgo i miei disegni, i pensieri.

Ha cominciato la sua attività artistica come designer di gioielli, al collo porta un ciondolo a forma di scarpetta, una Betty Boop in miniatura…
Ho fatto il privato e il pubblico, il minimo e il massimo, la donna e l’uomo… una dualità che è molto portoghese! (ride)