A distanza di novant’anni dalla pubblicazione di Una stanza tutta per sé (1929) di Virginia Woolf non pensavamo che si dovesse continuare ancora a riaffermare il diritto di cittadinanza nella «Repubblica delle Lettere» da parte di scrittrici dello spessore di Nadine Gordimer, Toni Morrison e Doris Lessing – tanto per citare tre delle 15 donne vincitrici di premi Nobel per la letteratura (ma decine e decine ne potremmo nominare per esprimere le nostre preferenze e passioni). E invece ci tocca ancora, in quanto donne e lettrici, rivendicare e difendere questo diritto se ci imbattiamo, su un quotidiano che rispettiamo, stimiamo e amiamo come il manifesto, in espressioni di condanna delle correnti critiche oltrecanoniche (femministe, ma anche postcoloniali) che da più di mezzo secolo hanno operato per riportare alla luce figure di autrici di valore offuscate e quasi cancellate dagli interdetti di un «Canone Occidentale» fondamentalmente bianco e patriarcale. Ci riferiamo al giudizio emesso quasi en passant, come verità ovvia che non bisogna neanche argomentare, nella commemorazione del grande critico Harold Bloom, pubblicata sul numero del 16 ottobre, in cui Caterina Ricciardi rievoca la polemica bloomiana contro ogni forma di resistenza (o di «risentimento», come lui stesso la definiva) contro l’esclusione delle «minoranze» – siano esse di genere, di classe o di razza – dal novero dei geni letterati canonici. Un novero peraltro molto ristretto: ventisei nomi (tra cui tre sole donne: Jane Austen, George Eliot, Virginia Woolf) secondo il suo tanto celebrato, e controverso, Canone Occidentale del 1994.

La nostra preoccupazione è soprattutto nei confronti di questa perdurante accettazione acritica, o almeno non argomentata, dell’opinione e dei gusti del celebre teorico americano, il cui drastico elitismo, non disgiunto da una passione genuina e trascinante per la potenza espressiva della parola letteraria, costituì invece, paradossalmente, dagli anni ’70 in poi, uno stimolo molto importante per la critica femminista a elaborare in forma articolata e consapevole l’idea contro- e ultracanonica. Furono proprio le risposte che L’Angoscia dell’Influenza di Bloom (1973) ricevette dalle critiche femministe storiche, a partire da Sandra Gilbert e Susan Gubar, che diedero il via a una delle più feconde stagioni di riflessione e messa a punto delle teorie critiche femministe, a cominciare dalla individuazione delle genealogie e dalle reti autoriali femminili a cui le autrici hanno da sempre fatto riferimento, anziché al meccanismo edipico di uccisione simbolica del proprio padre letterario, suggestivamente proposto da Bloom come spinta creativa originaria per la venuta alla scrittura.

Da quell’epoca si sono moltiplicate e precisate ricche mappe letterarie femminili (e, per altro verso, postcoloniali) e autorevoli teorizzazioni; dapprima nel mondo anglofono e successivamente in tutto il mondo, non ultima l’Italia, dove il dibattito trovò tra l’altro una lucida codificazione nel volume Oltrecanone (2003 e 2015) prodotto nell’ambito della Società Italiana delle Letterate e sulle pagine di riviste letterarie e culturali tra cui quella che è espressione di questa Redazione: Leggendaria. Libri Letture Linguaggi. Ci preoccupa, soprattutto, la riduzione essenzialista della posizione di Bloom a una contrapposizione tra la produzione di una élite limitatissima di geni sessualmente e razzialmente identificati con la tradizione maschile, bianca, occidentale e l’universo vario e mutevole della cultura letteraria ed estetica al quale pure lo legavano i suoi gusti voraci, come acutamente suggerisce Viola Papetti nel suo contributo allo stesso numero del manifesto. Ci preoccupa e ci dispiace anche la sottovalutazione di un concetto difeso da Bloom e centrale nella visione femminista della creazione artistica, e cioè quello di re-visione e ri-scrittura della tradizione; un concetto magistralmente definito da Adrienne Rich nel 1972 e vitale per la scrittura delle donne.
*La Redazione di Leggendaria