Amarsi, ri-innamorarsi a settant’anni. E, passo precedente e poi coincidente, trasferirsi (dall’appartamento romano in affitto e a seguito di uno sfratto repentino) e ri-cominciare la propria vita altrove. Ma un «altrove» che per Astolfo significa «ritorno», tornare nella vecchia, e da tempo decrepita perché mai più abitata, casa di famiglia situata in un piccolo paese del Centro Italia arroccato tra le colline e pieno di stradine acciottolate ripide e strette. Quella casa o, meglio, palazzo, di cui fanno parte anche le stanze della confinante chiesa, nei secoli passati aveva ospitato una nobiltà ormai evaporata.

CON LA SUA utilitaria, anch’essa in cattive condizioni ma pur sempre funzionante, Astolfo ripara nella dimora dove crebbe. E il suo arrivo/ritorno non passa inosservato. Tutti sanno tutto di tutti in questo borgo che Gianni Di Gregorio adibisce a set quasi esclusivo del suo nuovo lungometraggio Astolfo (da oggi in sala dopo l’anteprima alla Festa del cinema di Roma), a tre anni distanza da Lontano lontano e a quattordici da Pranzo di ferragosto che, alla Settimana della critica di Venezia, lo rivelò nel 2008, esordio alla regia firmato all’età di a 59 anni e premiato in quell’edizione della Mostra come migliore opera prima.
Cinema di emozioni sotto pelle, sussurrate, quello del cineasta, attore e sceneggiatore romano. Commedia stralunata e scanzonata che ama i personaggi che mette in campo e li racconta con partecipata discrezione. La scrittura e lo sguardo di Di Gregorio sono immediatamente riconoscibili, entrambe punteggiano i suoi film attraversati da un languore estivo, da un’indolenza incarnata dai corpi e che s’impregna nelle immagini. Astolfo è esemplare rappresentazione di questo stato di cose e metodo di narrare in cui, ancora una volta, Di Gregorio è anche attore protagonista, in scena fin dalle prime immagini e fino a quella conclusiva, bellissima, alla guida della vecchia auto e con accanto il nuovo amore nel frattempo incontrato, Stefania (Stefania Sandrelli). È un professore in pensione (tutti lo chiamano così), la moglie lo ha lasciato da molto tempo per rifarsi una nuova vita e, di fronte all’inattesa situazione dello sfratto, prende la decisione di ri-trovare quell’altrove accantonato.

È ANCORA proprietario di un’ala del palazzo e così ne ri-prende possesso. Incontrerà stanze in stato d’abbandono, profonde crepe nei muri, infiltrazioni d’acqua e, stupore, personaggi del posto che lo riconoscono e che condivideranno con lui la casa (uno lo faceva già, avendola scelta come suo riparo da tanti anni non avendo più un tetto) che diventa, scena dopo scena, un ambiente informale dove fare da mangiare, giocare a carte, chiacchierare, fumare. Inveendo, Astolfo, e rendendosi complici, i suoi tre nuovi amici, contro il prete subdolo, viscido, corrotto, in combutta con il sindaco di destra (bastano accenni di dialogo per farlo capire), arrogante e che costruì la sua villa su terreni di Astolfo sottratti al legittimo proprietario con la truffa.
Il paese, a partire dalla piazza con gli anziani ai tavolini, diventa un set quasi western da attraversare a piedi nelle opposte direzioni al fine di ottenere, a un certo punto, un «regolamento di conti», dopo tante denigrazioni subite, non più rinviabile per Astolfo.

E IL FILM è la sottile, per stile adottato, descrizione di anziani che si ri-affacciano alla vita credendo in se stessi e non facendosi influenzare, per esempio dai figli. Ne è personificazione Stefania, determinata, e pur non senza difficoltà, a vivere il suo amore con Astolfo nonostante il figlio e la moglie di lui facciano di tutto, egoisticamente e moralisticamente, per dissuaderla. Questi, e tutti i personaggi, sono tratteggiati con lievità e profondità in un film pieno di tenerezza, malinconia e desiderio di vivere.