Dion McGregor componeva canzoni ma la fama che ne accompagna il nome è legata soprattutto ai suoi somniloqui. A differenza dei «normali» sognatori, infatti, McGregor raccontava i sogni in tempo reale, mentre dormiva; una produzione ricchissima di storie, universi surreali e oscuri, umorismo e toni macabri registrati per sette anni dall’amico musicista Mike Barr – insieme i due compongono Where is the Wonder portata al successo da Barbra Streisand – con cui McGeregor divideva una stanza nella New York degli anni ’60, poi divenuti un disco (e un libro), The Dream World of Dion McGregor.
Il primo a stupirsi quando Barr glieli fece ascoltare è stato proprio McGregor convinto che qualcuno gli avesse fatto prendere dell’Lsd – sembra che abbia detto: «È come diventare famosi perché si fa la pipì a letto quando si dorme».

 
somniloquies, il nuovo lavoro di Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor comincia da qui, da un’allucinazione di insolenza, ilarità, desiderio, allegria, disgusto che sembra impossibile restituire in una dimensione «visiva». E questa è la prima sfida: come rendere immagini le parole dei sogni? Nelle note di regia i due cineasti scrivono: «Il film prova a domandarsi perché si fa un documentario: per svegliare la carne con cui sentiamo e chiedersi cosa significa essere umani, per riflettere e rappresentare un mondo al di là di noi stessi…».

 
In somniloquies i sogni di McGregor, con la sua voce garrula, che cambia tonalità e accenti inventando eccentrici dialetti scivolano sui corpi nudi di dormienti dei quali non distinguiamo i contorni. Una bocca, un sesso, un piede, un orifizio: tutto si mescola nella dimensione inconsapevole del sonno, mentre quelle storie si avvicendano e ci portano altrove sfumando la linea che separa la veglia dal sogno, la notte dal giorno, reale e irreale. Un’esperienza sensoriale sintonizzata con la ricerca di Paravel e Castaing-Taylor, riferimento per quella «tendenza» di immagini (ma è forse la definizione è riduttiva) legata al Sensory Etnhography Laboratory a cui rimanda, seppure con altre scelte visive e di temi, il lavoro di registi come JP Sniadecki o Sharon Lockhart. Dove l’etnografia non è lo studio di un popolo o di una cultura – come vuole l’interpretazione tradizionale – ma diviene processo estetico, invenzione di una forma in cui rendere questo racconto – Leviathan il precedente film di Paravel e Castaing- Taylor ne è un esaltante esempio a cominciare dall’uso fisico delle piccole telecamere digitali lanciate nell’acqua e in aria per tradurre una dimensione epica, la pesca, il mare, il rapporto con la natura in un gesto di quotidianeità.

 
Tutti loro condividono anche la stessa tensione verso un cinema «molteplice», immagini in movimento che si riformano negli spazi di fruizione, installazioni o schermo. Proprio come somniloquies che dopo l’anteprima alla scorsa Berlinale (Forum) sarà installato a Documenta Kassel (10 giugno-17 settembre). Via skype ne parliamo coi registi al lavoro su un nuovo progetto, un’ installazione, sempre per Documenta, il cui tema è il cannibalismo.

 
Come avete scelto i sogni che sono nel film?
È stato un lavoro molto lungo, su trenta ore ne abbiamo scartate almeno 29… Abbiamo passato mesi a ascoltarli anche separatamente, senza parlarne tra di noi. Li classificavamo e poi ne discutevamo, da 100 ne abbiamo tenuti cinquanta e così via. Il criterio di scelta si concentrava sul contenuto di ogni sogno, alcuni era più politici, avevano uno spessore contemporaneo, altri erano divertenti ma non molto profondi. Abbiamo provato a trovare un equilibrio tra questi aspetti. C’erano pure degli incubi che ci piacevano, altri che erano più viziosi e dark. Avremmo voluto fare un film più lungo, poteva durare otto ore, ma eravamo stanchi, e dovevamo trovare il tempo di mettere insieme altre persone che dormivano e filmarle per almeno dieci ore.

 
Ecco, i corpi dei dormienti. È stato complicato convincerli a farsi riprendere nel sonno?
Anche questo è stato un processo laborioso, abbiamo contattato le persone per mail dandogli poche informazioni, non gli abbiamo nemmeno fatto ascoltare i sogni di McGregor, gli abbiamo soltanto detto che volevamo della gente che dormisse per noi. Abbiamo evitato di rivolgerci a persone che già conoscevamo, alcuni hanno rifiutato, altri sono stati così generosi da farsi riprendere dormienti e nudi: sono venuti a Parigi per dormire una notte.
I corpi nelle immagini sono «sgranati», si confondono, compongono un movimento, un respiro in cui se ne perdono i contorni. Lo avevate deciso dall’inizio?
Abbiamo fatto numerose prove con macchine da presa diverse. La prima era una super 16 molto pesante che riprendeva tutto il corpo ma il risultato non era molto interessante. Come porsi davanti al corpo dei dormienti, il modo in cui filmarlo erano questioni centrali. Volevamo questo effetto molto morbido che abbiamo ottenuto con altre macchine digitali.

 
Quanto decidete poi in montaggio?
Non è semplice rispondere perché il montaggio è un processo intuitivo, c’è una logica intellettuale ma non funziona solo così specie davanti a un materiale come questo di somniloquies che quasi impone un approccio inconscio, o meglio ancora random. Abbiamo esplorato più direzioni, inserito i sogni e poi le immagini, oppure le immagini senza sonoro ma non funzionava. Di una cosa però eravamo sicuri: non volevamo associare i sogni ai corpi ma creare un nuovo equilibrio nell’universo dei sogni e nell’inconscio della persona che li raccontava. È stato un po’ come lavorare a maglia, si mette un pezzetto di lana e si va avanti; non seguivamo una formula, è stata una ricerca fatta di tentativi che ci ha impegnati per mesi. C’erano tante parole nei sogni, dovevamo creare uno spazio per non essere soffocati. Anche in questo caso il tempo del film non è il risultato di una formula concettuale ma è venuto provando. Molte decisioni sono state quindi inconsce, con la complicità dei sogni elaborati e trasformati in oggettività. C’è un costante rapporto tra soggetto e oggetto, tra narrazione e narratore che ne è il dispositivo. Rispetto a questo si presentano due possibilità opposte: che l’attività onirica possa essere narrativa, quindi inserita nel dominio umanistico, o che sia invece in una sfera non umana, non addomesticata.

 
«somniloquies» sarà presentato in forma di installazione al prossimo Documenta .
Sì, insieme a un altro lavoro sul cannibalismo in cui indaghiamo cosa significa per l’essere umano, la sua relazione che innesca con la sessualità. Lo spunto ci è venuto dalla vicenda di Issei Segawa, lo studente giapponese che nel 1981 a Parigi ha ucciso una sua compagna di università mentre studiavano la poesia tedesca, e l’ha mangiata. Diceva di amarla… Non è mai andato in prigione, il governo giapponese ne ha chiesto l’estradizione ed è diventato una specie di celebrità. Ancora oggi sostiene che mangiare qualcuno è un atto d’amore. La sua è l’espressione di un dialogo contemporaneo sui sentimenti in cui il desiderio dell’altro diviene un atto cannibale, sulla sessualità, sul conflitto, sull’amore. E permette di studiare cosa fa parte dei tabù e cosa diviene un crimine.