Di Chaïm Soutine si racconta questo aneddoto, relativo agli anni in cui ancora viveva a Smilovitchi, il suo paese natale in Bielorussia: aveva una tale attrazione per il disegno che un giorno non si trattenne dal fare il ritratto a un rabbino. Orgoglioso per la riuscita lo mostrò in giro. Ma finì male. Il figlio del rabbino, che era il macellaio del paese, lo chiamò nel retrobottega dove teneva le carni appese e gliene diede di santa ragione. C’è molto del destino di Soutine in questo episodio: facendo ricorso a un neologismo coniato da un personaggio a lui tanto affine, Antonin Artaud, si può dire che quella per Soutine fu un’esperienza di suppliciation, vale a dire un supplizio non semplicemente subìto, ma attivo.
È un episodio che fa da sottofondo alla bella e intensa mostra che il Jewish Museum di New York ha voluto dedicare ai quadri di Soutine che hanno la carne come soggetto (Chaïm Soutine Flesh, fino al 16 settembre. Una selezione di trentadue opere, imperniata in particolare su due straordinari cicli della metà degli anni venti, quelli dei buoi squartati e dei polli appesi.
Nato poverissimo da famiglia ebrea, armato di un furore artistico, Soutine aveva fatto sodalizio con altri due coetanei, Michel Kikoïne e Pinchus Krémegne, allievi come lui all’accademia di Vilnius. È con loro che tra 1911 e 1912 decise di raggiungere Parigi, senza un soldo in tasca e parlando solo la lingua natale, lo yiddish. Si stabilirono alla Ruche, un falansterio nel cuore di Montparnasse, comperato da un scultore allora di successo per offrire un rifugio alle decine di artisti che in quell’inizio secolo arrivavano a Parigi come risucchiati da una formidabile calamita. Dalla Ruche passarono Chagall, Zadkine, Brancusi, Leger, Soffici, Modigliani e decine di altri. Fu una stagione di brutale miseria che Soutine attraversò, restando come tanti altri comunque abbarbicato al proprio destino di artista.
All’inizio del percorso c’è un’opera che fotografa in maniera semplice e icastica questa condizione: è una natura morta con un piatto di aringhe, visto dall’alto, in mezzo a una tavola spoglia, allestita con una sola ciotola bianca; due forchette sono pronte ad aggredire quella miseria di pasto. I tre pesci scheletrici hanno occhi sovradimensionati che ci guardano, con un tono un po’ beffardo di sfida. Nella sua nudità e magrezza il piatto viene ostentato con orgoglio, quasi si trattasse di un trofeo da alzare in trionfo: la pittura sfama assai più del cibo. «J’ai le coeur qui tire», è infatti una frase che gli amici gli sentivano spesso pronunciare.
È il 1916. Soutine vive in una condizione di leggendaria selvatichezza e povertà estate e inverno con un pastrano di velluto addosso. Per procurarsi qualche soldo insieme a Kikoïne di notte lavora a scaricare dai treni casse di pesci e di frutti di mare. Con Modigliani è amicizia vera: è lui che lo svezza anche al vino e all’assenzio. Lo ritrae anche più volte, dopo quel primo ritratto del 1917, in cui lo vediamo sorridente, con un ciuffo dei capelli neri che cade sull’occhio. Modì tenta di farlo entrare nelle grazie di Leopold Zborowski, il giovane mercante polacco che si stava affacciando sulla scena parigina. Ma tra «Zbo» e Soutine il rapporto non sarebbe mai stato semplice, anche per via dell’ostilità della moglie del mercante, Hanka.
Ben diverso per Soutine fu l’incontro con Albert Barnes, un chimico che aveva fatto la fortuna grazie al brevetto dell’Argyrol, un farmaco per combattere la gonorrea. Era un collezionista raffinato e famelico, arrivato da Philadelphia per fare incetta di tutto ciò che di meglio Parigi poteva offrire. Un giorno da Paul Guillaum fece la scoperta di questo artista di cui non aveva mai sentito neanche il nome. «Mais c’est une pêche!», pare abbia pronunciato (la testimonanza è dello stesso Guillaume) davanti al ritratto di pasticcere dalle grandi orecchie del 1919. Di pesche in realtà non se ne vede neanche l’ombra nel quadro, ma è incontestabile che il fragore della pittura di Soutine, il motivo della carta da parati sul retro evochino un senso di frutto estivo. Ovviamente quel quadro finì nelle sue mani, insieme ad altre ventidue opere la cui vendita per l’artista decretarono una consacrazione e la fine dell’età della miseria.
Barnes fu importante perché permise a Soutine di realizzare un sogno cullato tante volte, stando per ore davanti al Boeuf écorché di Rembrandt al Louvre: comperare la carcassa di un animale macellato e portarla nello studio per dipingerla. A chi cercava di farlo desistere da un’idea che aveva mille controindicazioni di carattere igienico rispondeva andando in escandescenze da sovraeccitazione. Lo studio divenne impraticabile da chiunque per la puzza. Una volta si presentarono anche gli agenti dei servizi d’igiene per sequestrare un grande pezzo di carne appeso. Ma alla fine gli agenti si arresero e gli diedero anzi il consiglio di fare iniezioni di ammoniaca nella carne per preservarla (cosa che causò una strage di cani quando la carcassa venne data loro in pasto).
L’attrazione di Soutine per la carne aveva prodotto una sorta di lucido invasamento: tra 1923 e 1925 tornò più volte sul soggetto. Alla mostra di New York sono arrivate quattro varianti, di cui due (provenienti da Buffalo e da Amsterdam) di grandi dimensioni e di grandissima intensità. A differenza del modello rembrandtiano, le carcasse di Soutine sembrano essere trafitte ogni volta da una scarica elettrica. È carne ferita che non si arrende al suo destino, che si impenna verso quell’imprevedibile blu cielo (ma anche blu Chartres…) dello sfondo. Osservando le due tele da vicino, si capisce come per Soutine la pittura sia un oltranzistico esercizio a cogliere l’irriducibile violenza della vita e di travasarla sulla tela, strappandola al suo destino. I rossi liquidi, profondi, a tratti selvaggi sono l’esito di questo travaso. Un esito dal quale l’occhio non si può sottrarre, risucchiato da un vortice che ci appare insieme fisico e cosmico. È risaputo che Soutine ravvivava la carne con secchiate di sangue che la povera Paulette Jourdain gli procurava in gran quantità andando al macello, dove lasciava interdetti i lavoranti con le sue richieste. Sangue vivo dunque su carne viva.
A dispetto della carica di violenza che caratterizza questa serie, nella pittura di Soutine si intercetta anche un’istanza di tenerezza, per via di quel suo abbarbicarsi sempre e comunque alla vita, pur a mani nude. Non c’è mai nulla di necrofilo nella sua pittura, per quanto davanti a sé abbia per scelta dei corpi morti. C’è infatti nella sua pittura una sete di luce che sopravanza sempre la brutalità della situazione. È una sensazione che s’impone con ancora maggiore forza nella sala più bella della mostra, quella dedicata alla meravigliosa serie dei polli appesi. Soutine li dipinge come se il suo pennello seguisse gli ultimi convulsi e disperati battiti d’ala dei poveri volatili. La sua è pittura che non prende mai le distanze, che si compromette pienamente con il destino di ciò che rappresenta. Ma anche in questo caso non affonda in quel destino. La sequenza dei polli, che si stagliano quasi sempre su fondi blu, scuri ma luminosi come smalti, riversa nella sala un’energia vitale, che trapassa anche la crudeltà della situazione. Come stelle di un folle firmamento le sagome degli animali sembrano dipinte con scintille di materia e di colore. Raccontano tanti testimoni come Soutine amasse a dismisura la musica di Bach: la colonna sonora più adatta per una sala come questa sarebbe proprio il brano da lui preferito, Preludio e Fuga in mi bemolle maggiore.