Storicizzare il punk potrebbe far storcere il naso a chi lo percepisce, almeno simbolicamente, come un fenomeno in divenire. E non poche volte capita di ascoltare oggigiorno: questo è punk. Con conseguente delusione. Ma appunto inquadrarlo diventa un’operazione non facile proprio per le tante variabili, per la mole di materiale (se parliamo di quello inglese) o per la sua frammentarietà (quando ci riferiamo all’esperienza nostrana). A cercare di tirare un filo fra il paese del bel canto e le contestazioni d’oltremanica ci pensa la storica Alessia Masini con Siamo nati da soli, sottotitolo Punk, rock e politica in Italia e in Gran Bretagna (1977-1984), Pacini Editore (pp. 274, 18 euro).

IL PUNK inizia a penetrare ovunque dove il «no» è la risposta della working class che si potenzia con l’attitudine del do it yourself, anche se diventa meno credibile quando, nel 1976, i Sex Pistols firmano per la EMI e l’anno successivo i Clash per la Cbs. Già muore il punk? No, perché intanto si sviluppa anche una terza scena, quella anarcopunk pacifista e femminista, come nel caso dei Crass o le Poison Girls. Con il punk che non riguarda più solo l’industria della musica o l’iconografia.
L’autrice si affaccia sulla trasformazione dei costumi (con occhio particolare all’Italia: «arcipelago di correnti sia politiche che musicali») senza entrare troppo nelle vicende dei protagonisti. Ricostruisce i movimenti tellurici prodotti dalle correnti politicizzate o dai più disparati linguaggi dell’arte da esso rappresentati, al fine di ragionare (anche) su come il punk si adatti in ogni paese in base agli orizzonti sociali tanto che, secondo la Masini, possiamo parlare di un punk al plurale. Un libro per riflettere sugli incastri trasversali della Storia con le «sottoculture» e su un senso di appartenenza desideroso di far esplodere il conformismo.