Svoltasi mentre molti aeroporti d’America erano invasi dai manifestanti, anche la premiazione del Sundance 2017 è stata contaminata dagli eventi. Ha dovuto riconoscerlo persino il molto diplomatico direttore del festival, John Cooper: «Questo è stato un festival dei più scatenati, bizzarri e più gratificanti da parecchio tempo. Dal nuovo governo, alla marcia delle donne su Main Street, ai black out elettrici, al ciberattacco (al botteghino, ndr), alle nevicate record…il lavoro dei nostri artisti ha tenuto testa a tutto e, in dieci giorni, ci ha provocati e cambiati. La cosa di cui sono più orgoglioso è l’aver formato una comunità resa ancora più unita dall’arte che pratichiamo e dalle idee in cui crediamo».

«Prendiamo l’energia qui al festival e lavoriamo insieme per le arti e il futuro che desideriamo», gli ha fatto eco la direttrice del Sundance Institute Kari Putnam, mentre in prima fila venivano inquadrati due membri del collettivo siriano di citizen journalist Raqqa is Being Slaughtered Silently, protagonisti del nuovo documentario di Michael Heineman (Cartel Land), City of Ghosts e che, festeggiati come eroi a ogni proiezione, sono diventati il simbolo della libertà di parola al festival di quest’anno.

In un’edizione che ha offerto film interessanti ma meno «punte» del solito (tre quelle poche spicca tutt’oggi il film di Luca Guadagnino, Call me By Your Name), anche i premi (la lista completa sul nostro sito, www.ilmanifesto.it) hanno dimostrato una logica un po’ «sparsa». Miglior film del concorso Usa la commedia dark diretta da Macon Blair e prodotta da Netflix I Don’t Feel at Home in This World Anymore, mentre il premio per il miglior documentario Usa è andato a Dina, di Dan Sickles e Antonio Santini). Chasing Coral, il bel sequel di Jeff Orlowski al suo Chasing Ice, (che parlava della scomparsa dei ghiacciai mentre qui si parla di barriere coralline) ha vinto invece il premio del pubblico per la non fiction, segno che l’accento sull’ambiente inserito nel programma 2017 è stato notato.

Da sempre un backstage favorito del cinema indipendente americano, New York fa da sfondo a molti dei film visti quest’anno. Dalla Manhattan retro-anni novanta in Landsline, di Gillian Robespierre, alla Brooklyn invasa da un’armata di uomini in nero nel purtroppo deludente Bushwick, di Cary Munion e Jonathan Milott, su un’ipotetica seconda guerra civile; dalle tensioni criminal/razziali di Crown Heights, nel film omonimo di Matt Ruskin (vincitore del premio del pubblico), alle case popolari sotto il Queens Bridge, dove, all’alba dell’hip hop, è nata la carriera di Roxanne Shantè (raccontata in Roxanne Roxanne, di Michael Larnell, premiato per la migliore attrice); alla borghesia intellettuale di Park Slope, nel nuovo, europeizzante, lavoro di Alex Ross Perry, Golden Exit, in programma anche a Berlino.

Tra tante sfaccettature diverse della stessa città, una di quelle evocate con più intensità, e tra le più inedite, è quella di Beach Rats, secondo film della regista newyorkese Eliza Hittman (premiata per la miglior regia) che, affidandosi al 16mm e all’occhio pittorico della dp francese Helen Louvart (Pina, Corpo celeste), ambienta questo suo romanzo di formazione in un quartiere ai margini di Brooklyn, Garritsen Beach.

Stretto tra il litorale di Coney Island e l’estremità più meridionale di Flatbush Avenue, tutt’oggi ignorato dalla gentrificazione che sta inghiottendo il resto della città, Garritsen è casa per Frankie (l’inglese, anche se non si direbbe, Harris Dickinson), teen ager biondo, con occhi azzurri espressivi, il torso piatto e muscoloso e un sorriso sincero, che divide il suo tempo tra un sito di cruising gay e le spedizioni in cerca di ragazze con gli amici macho da spiaggia, soffocando il confitto tra i suoi desideri contrastanti in una dieta di pillole procurate grazie alla ricette mediche del papà, che sta morendo di cancro.

Storia di ennui bianco maschile e blue collar, più che l’arco di un coming out, Beach Rats inanella, uno dopo l’altro, i rituali che Frankie asseconda con docilità – la visita a Coney Island in occasione dei fuochi di artificio, l’occasionale borseggio, la tappa al banco dei pegni dove finiscono gli orecchini della mamma, gli incontri furtivi con uomini sconosciuti, più vecchi di lui, dietro all’autostrada che costeggia la spiaggia, e quelli con Simone, una ragazza piccola e decisa, che lo abborda sull’autopista….

Hittman (che, si vede, ama il cinema di Guiraudie e Gaspar Noè) è meno interessata a «risolvere», la confusione (sessuale) di Frankie che a tratteggiarla nel quadro emotivo ma anche socio/economico più vasto del suo coming of age. Un luogo, in questo film tenero e fatalista, di semi(n)coscienza, di apparente noia e ripetitività, dove andarsene non è un’option e il gesto irreparabile ti aspetta dietro all’angolo.È un ennui di classe sociale completamente diversa quello che – nella sezione Next, riservata alle «promesse»- lega le due protagoniste di Thoroughbred, Amanda (Olivia Cooke) e Lily, ex-amiche d’infanzia che si rivedono –nella casa principesca di Lily (Anya Taylor-Joy, protagonista di The Witch e Split) – dopo che Amanda, una campionessa equestre, ha brutalmente ucciso il suo adorato cavallo.

Storia di reciproca manipolazione femminile con patrigno metrosexual e un po’ sadico (Paul Sparks), costruita come un’elaborata partita di scacchi, Thoroubred è il primo film del drammaturgo newyorkese Cory Finley e una delle ultime apparizioni dell’attore Anton Yelchin. Sempre nella sezione Next, anche se il regista è una promessa già ben collaudata, va segnalato A Ghost Story, il nuovo lavoro David Lowery, rivelazione a Sundance 2013 con Ain’t Them Bodies Saint e, dopo quel successo indie, regista dell’animato Disney Pete’s Dragon.

Con questa storia di fantasmi, che ha l’ermetismo asciutto e minimal di un bel racconto gotico filtrato dalla sensibilità modernista di John Cheever, Lowery torna alle sue radici «povere» con un film che (a torto) il festival deve aver considerato troppo sperimentale per il concorso. Casey Affleck è l’amante di Rooney Mara (i due erano già co- protagonisti di Ain’t them Bodies Saint) che, dopo essere rimasto ucciso in un incidente d’auto, torna a nella casa dove viveva con lei sotto forma di fantasma.