Si intitola À la grâce de Dieu la mostra realizzata dal Mémorial de la Shoah di Parigi per alimentare la riflessione pubblica sul posizionamento assunto dalle chiese cristiane di fronte allo sterminio degli ebrei in Europa. L’esposizione, che si concluderà il prossimo 26 febbraio, si compone principalmente dei documenti inediti provenienti dagli archivi vaticani, da quelli civili ed ecclesiastici francesi, dalle congregazioni e dagli ordini religiosi in Francia, Germania e Svizzera. Ne abbiamo parlato con Nina Valbousquet, responsabile scientifica del progetto, storica dell’École française de Rome, e in prima linea negli studi sul pontificato di Pio XII.

Come è nata l’idea di questa mostra e come si inserisce nel dibattito pubblico?
Il contesto di maturazione è stato duplice, francese e internazionale. Nell’estate 2022 (quando la mostra viene inaugurata) si ricorda l’80° anniversario degli eventi tragici dell’estate del 1942 con i rastrellamenti massicci degli ebrei nella Francia occupata e nella cosiddetta zona «libera». Quella ricorrenza è anche però l’occasione di ricordare le voci che si sono levate pubblicamente contro le deportazioni, tra le quali figurano alcuni vescovi cattolici e pastori protestanti. A livello internazionale, l’idea è nata con l’apertura alla consultazione delle carte relative al pontificato di Pio XII (1939-1958). Si tratta di un’occasione per trasmettere a un pubblico più ampio i passi avanti più recenti della storiografia sul tema.

La scelta di tenere lo sguardo puntato sulle chiese cristiane risulta innovativa. Quali affinità e divergenze tra le diverse confessioni emergono dalle nuove acquisizioni documentarie?
Bisognava innanzitutto prendere le distanze dalla focalizzazione sulle polemiche intorno a Pio XII e collocarle in un contesto più ampio: come è stato possibile mettere in atto lo sterminio nel cuore dell’Europa cristiana, sotto gli occhi del clero e dei fedeli? Perché alcuni uomini e donne di chiesa hanno protestato e aiutato, mentre altri sono rimasti in silenzio? La scelta di trattare insieme cattolici, protestanti e ortodossi ci permette sia comparazioni (sulla questione dei silenzi, ad esempio) che connessioni (le reti di aiuto, spesso interconfessionali, anche con il concorso di organizzazioni ebraiche). Un punto che accomuna le diverse chiese rimane la debole consapevolezza del problema dell’antisemitismo. Il nazismo è stato considerato pericoloso innanzitutto in quanto anticristiano. Se guardiamo invece alle divergenze, se ne trovano sia dal punto di vista teologico – ad esempio, il calvinismo valorizza di più la continuità tra Antico e Nuovo Testamento rispetto al luteranismo che insistite invece sulla rottura – sia sul piano organizzativo, dove ha pesato maggiormente nel prendere decisioni la struttura gerarchica della chiesa cattolica.

La mostra si propone di andare oltre il dibattito sui dilemmi e i silenzi di Pio XII. Perché, a suo giudizio, è importante scomporre il punto di vista sul posizionamento della Santa Sede e, più in generale, della chiesa cattolica?
La disponibilità di archivi inediti permette di comprendere meglio i silenzi, i dilemmi e le esitazioni di Pio XII, ma anche di studiare i dibattiti interni al Vaticano: la Santa Sede non era un blocco monolitico e vi è stata una certa pluralità di posizioni e sensibilità espresse dalla sua diplomazia, per esempio dai nunzi. In realtà, la questione dei silenzi ha preoccupato la chiesa fin dall’inizio della guerra, dal vertice al parroco di periferia, e non può essere spiegata riconducendola alla sola figura del pontefice.

Quale è stato il peso dell’antisemitismo cattolico nel condizionare l’atteggiamento della Santa Sede di fronte alle persecuzioni antiebraiche? In quali aspetti si distingue dall’antigiudaismo tradizionale?
Il pregiudizio antiebraico ha avuto certamente un peso nel riserbo della Santa Sede di fronte alle persecuzioni. Con l’apertura degli archivi, è stato chiarito il ruolo di mons. Angelo Dell’Acqua, consigliere di Pio XII nella Segreteria di Stato, ma anche l’influenza di pregiudizi antisemiti nel condizionare il suo operato. Si tratta di un «nesso fluttuante», come lo descrive lo storico Giovanni Miccoli, tra antigiudaismo cristiano e componenti secolarizzate dell’antisemitismo moderno, come ad esempio il mito del complotto «giudaico-bolscevico», che le nuove fonti confermano essere stato condiviso anche ai vertici della gerarchia ecclesiastica dell’epoca.

Rimaniamo sul punto. Miccoli spiega che la paura del comunismo è stata uno degli elementi decisivi nell’indirizzare la linea della Santa Sede nei confronti della guerra. Le nuove ricerche modificano in qualche modo questa interpretazione?
L’interpretazione di Miccoli mi sembra ancora oggi valida, soprattutto perché multifattoriale: il peso del pregiudizio antiebraico; la priorità data alla diplomazia prudente; il timore per la diffusione del comunismo; ed anche un «ecclesiocentrismo» spiccato: la priorità assoluta del Vaticano è stata assicurare la sopravvivenza della chiesa come istituzione e proteggere i cattolici. Anche da qui il cauto riserbo di fronte alle persecuzioni antisemite.

Per quanto riguarda il contesto francese, quanto ha influito la seduzione esercitata dal progetto di restaurazione morale promosso dal regime di Vichy?
C’è stata una convergenza ideologica molto forte intorno all’idea di resuscitare la Francia cristiana. Si trattava però di un vantaggio reciproco: il regime contava sulla chiesa cattolica per rinforzare il consenso popolare a la sua legittimità, mentre quest’ultima sperava di riconquistare diritti perduti con la legge del 1905 di separazione tra Stato e Chiesa.

In che misura i rastrellamenti del 1942 hanno segnato un punto di passaggio?
Diciamo che per la prima volta la protesta è stata espressa pubblicamente e non più dietro le quinte. In agosto e settembre 1942, la dichiarazione della federazione protestante e le cinque lettere pastorali di vescovi cattolici segnalavano al regime di Vichy il limite oltre il quale le chiese non intendevano più tacere. Le deportazioni, e soprattutto la separazione delle famiglie, venivano condannate, ma anche in questo caso non si è arrivati a mettere in discussione la legislazione antiebraica. Le proteste delle chiese hanno costretto il regime a rallentare e agire in modo più «discreto», ma non hanno comunque impedito la sua partecipazione al genocidio.

Uno spazio importante della mostra è relativo alla storia della memoria. Come è cambiata nel tempo l’opinione pubblica internazionale? E in che modo si è modificata la posizione della chiesa cattolica su questa pagina del proprio passato?
La questione del dopoguerra può essere ora approfondita grazie ai documenti: come si spiega, per esempio, che il silenzio di Pio XII sia continuato anche dopo il 1945? Il processo di presa di coscienza da parte cattolica è stato lento e incompleto. Basti dire che prima del Concilio Vaticano II non c’è stata alcuna evoluzione nella posizione della chiesa. L’apertura degli archivi da parte di papa Francesco è stata una decisione coraggiosa, anche se ci sono ancora forti tendenze apologetiche che rifiutano di vedere la complessità della questione.