La nuova tornata di sanzioni varata dagli Stati uniti e dall’Europa nei confronti della Russia incide notevolmente sul settore petrolifero di Mosca, già provato dall’embargo sull’export di tecnologia. Le misure americane sono più drastiche di quelle comunitarie. In sostanza vietano di continuare a operare in Russia. Bruxelles invece ha imposto di non siglare nuovi contratti. Questi provvedimenti, a prescindere dalle varie modulazioni, mettono in seria difficoltà la Russia, secondo esportatore a livello mondiale.

Il suo problema è che il settore è fortemente dipendente dal sostegno logistico e tecnologico occidentale, senza il quale i processi di esplorazione e sfruttamento possono incepparsi, determinando conseguenze economiche di larga portata. L’export energetico assicura infatti una grossa fetta degli introiti statali, in quella che si configura come la classica «sindrome olandese».

Due anni fa Mosca ha cercato di mettere una pezza al problema, siglando con alcuni colossi internazionali una serie di accordi votati a setacciare l’Artico, dove lo scioglimento dei ghiacci favorisce la ricerca di nuovi giacimenti. Sul fondale, a quanto pare, sono intrappolate risorse ingenti. Se liberate permetterebbero di compensare il calo produttivo dei bacini tradizionali della Siberia. Exxon, Shell, Eni e la norvegese Statoil sono tra i soggetti che hanno addentato la grande torta artica, in quella che è stata una delle più importanti aperture degli ultimi anni in un settore che Mosca considera, volendo tagliare corto, una riserva esclusiva.

Ma non è solo dall’Artico che si cerca di attingere. La Russia, negli ultimi anni, ha percorso anche la strada dello shale oil, il petrolio che alla stregua dello shale gas si estrae attraverso processi di frattura idraulica. Si stima che il bacino di Bazhenov, nel lembo occidentale della Siberia, abbia riserve quattro volte superiori a quelle dell’Arabia Saudita. Anche in questo caso è scattato il coinvolgimento delle major occidentali: Exxon e Shell hanno firmato accordi con Gazprom e Rosneft.

Questi accordi e quelli sull’Artico potrebbero ora decadere, causa sanzioni. Niente più tecnologia e niente più presenza in loco occidentale. Sarebbe un colpo durissimo, aggravato dal fatto che i prezzi del barile sono scesi sotto i cento dollari. Livello che la Russia considera critico. Ieri il ministro russo dell’energia, Alexandr Novak, era a Vienna. Ha incontrato i vertici dell’Opec .Mosca non ne fa parte, ma ha tutto l’interesse a capire se il mercato tornerà tonico.

«Le sanzioni occidentali aprono grossi interrogativi sull’economia di Mosca», spiega Evgeny Utkin, analista russo in forza a Partner N1, un’agenzia che si occupa di sviluppo strategico aziendale con un’attenzione particolare alle relazioni euro-russe. «Il settore del petrolio, a causa dei noti ritardi tecnologici, è molto vulnerabile. Sul gas, invece, le sanzioni inciderebbero di meno. Il punto è che il petrolio è abbastanza sostituibile. L’Europa, che ne importa in buona quantità dalla Russia, può comprarlo da altri produttori. Il gas no, è più vincolante.

È questo il motivo per cui Bruxelles ha scelto di agire sul versante petrolifero: non compromette fino a prova contraria l’approvvigionamento di gas, riesce a tenere su le sue economie e al contempo ferisce quella della Russia», continua Utkin, secondo cui la tenzone delle sanzioni è nel suo complesso una poco utile gara a farsi male. «Danneggia la Russia, ma anche l’Europa. Avvantaggia gli americani e ancora di più i cinesi».

Ad ogni modo questa è la realtà e tornando dal quadro generale al dettaglio petrolifero si registra il tentativo, da parte delle corazzate russe, Gazprom, Rosneft e Lukoil, di contenere l’impatto delle restrizioni occidentali. Agendo su due piani. Da una parte queste aziende hanno accelerato negli ultimi tempi le attività sviluppate con la partnership occidentale, cercando di massimizzarle.

Dall’altra si cerca di impostare una politica di diversificazione delle importazioni di tecnologia. Igor Sechin, ex capo dell’amministrazione presidenziale, oggi al vertice di Rosneft, ha spiegato che l’obiettivo di medio termine è trovare altri fornitori. Ma, oltre al fatto che Mosca dovrebbe ragionare sul breve periodo, visto i tempi che corrono, il problema è da chi comprare. Alla tecnologia occidentale non ci sono troppe alternative. La Cina non lo è, quanto meno non ancora.

C’è comunque sia una prospettiva di dialogo, anche a fronte del sempre più duro scenario di confronto economico-energetico. Il fatto che Sechin, uomo chiave del sistema energetico e di potere russo, non figuri tra le singole personalità finora sanzionate indicherebbe, sulla carta, che Bruxelles non voglia arrivare alla rottura totale con Mosca.