Capelli cortissimi, cuffiette e smartphone perennemente connesso alla rete, occhiali con una montatura pesante, ma il giovane dalla pelle nera che occupa lo schermo è velocissimo nello svicolare le macchine nel caotico traffico di una metropoli che potrebbe essere New York, Parigi, Londra, San Francisco, Milano.

Velocità, dunque, conoscenza approfondita della metropoli – i suoi ritmi, i suoi flussi di merci e umani -, ma soprattutto intraprendenti, amanti del rischio e disposti a trasformarsi in imprenditori di se stessi. I riders sono stati così rappresentati in una pubblicità che solo pochi anni fa annunciava un servizio di consegna a domicilio. Sembrava che quel «lavoretto» potesse garantire un reddito più che dignitoso, consentendo una facile autonomia dalla famiglia. Poi, la realtà ha smentito l’immagine patinata di quella che frettolosamente è stata definita la Gig economy, considerata una evoluzione friendly del capitalismo delle piattaforme.

I riders sono così diventati l’emblema di uno sfruttamento intensivo ed estensivo dove i salari sono di fame, i diritti inesistenti, l’orario di lavoro una astrazione neppure reale e la gerarchia, questa si una astrazione reale, ha l’immaterialità di una app, che assegna consegne, stila resoconti sulla velocità di consegna e definisce un profilo sulla fedeltà aziendale del lavoratore, ritenuto a tutti gli effetti un imprenditore di se stesso.

Di questi lavoretti, che siano facchini, analisti di sistema, softwaristi e riders, il capitalismo delle piattaforme ne ha un bisogno estremo, perché sono flessibili e coloro che li fanno facilmente ricattabili. Soprattutto, hanno costi quasi irrilevanti per le imprese. Ma i bassi salari, l’aleatorietà del rapporto di lavoro (cioè la sua estrema precarietà), che si traduce in insubordinazione del lavoratore appena le condizioni lo consentono, rendono alla lunga poco attrattiva la prospettiva di fondare un settore economico – quello della distribuzione – su un esercito di working poor.

Ma Amazon, Foodora e tante altre platform company non sono state certo colpite dalla consapevolezza dello sfruttamento a cui sottopongono i loro dipendenti. Più pragmaticamente, dal loro punto di vista, puntano a sostituire l’impiego umano con droni, automobili senza guidatore, robot che sistemano le merci nei magazzini. Il capitalismo delle piattaforme risponde così alla precarietà di massa e alla crescita delle diseguaglianze sociali accentuando i livelli di automazione per il lavoro manuale e per il lavoro anche cognitivo. La società risultante da così tanti sforzi è una realtà dove una minoranza di umani svolgono lavori qualificati di progettazione, di coordinamento e di ricerca e sviluppo, mentre la maggioranza della popolazione si spartisce ferocemente il resto del lavoro che non viene automatizzato perché lo sviluppo di macchine e software specifiche costerebbe troppo.

Tale modello di società non è proposto in qualche romanzo di science fiction, né in qualche saggio critico verso le distopie dominanti, ma sta nei discorsi del boss della Tesla Elon Reeve Musk. Il teorico della automobile elettrica oscilla da una fiducia cieca verso le virtù salvifiche della tecnica a un fosco pessimismo dove le macchine stanno accelerando la formazione di una società disumanizzata. La sintesi che Musk propone è avviare una colonizzazione di qualche pianeta del sistema solare per trasferirvi la popolazione eccedente della Terra. Sono cioè gli umani a rappresentare un ostacolo allo sviluppo economico.

Tesi che trova molta audience nella Silicon Valley, a partire da un altro tecno-entusiasta, il fondatore di Pay Pal e capitalista di ventura Peter Thiel. In questo caso, il futuro del mondo appartiene a una minoranza di meritevoli che hanno la legittimità a governare il mondo. Per il resto degli umani, un po’ di carità, un simulacro di reddito di cittadinanza in salsa neoliberista.

Il nodo da sciogliere è la sostenibilità sociale di un mondo dove il lavoro è ridotto a risorsa scarsa. In molti lanciano grida di allarme per la crescita delle disuguaglianza sociali, dello svuotamento delle istituzioni che garantiscono la tenuta del legame sociale (la scuola, la famiglia, le associazioni degli interessi). E che guardano con terrore la crescita della povertà, che ha magari il volto dello straniero, da respingere con l’esercito o delegando la gestione della povertà a organizzazioni non governative trasformate in corpi paramilitari.

I riders perdono così la patina glamour dei nomadi metropolitani per diventare dunque il simbolo di un mondo in continua transizione. Sono cioè condannati a un movimento continuo, come continuo è il ciclo della valorizzazione capitalista. C’è molto da imparare dallo loro scorribande, dalla loro conoscenza della mappa urbana che non è fatta solo da incroci, rotatorie, ma di stili di vita e cooperazione sociale. Una conoscenza finora tacita, buona a districarsi nei blocchi e nei tanti confini costruiti artificialmente nelle città per tenere separati habitat sociali e per consolidare differenze di classe. Ma anche perché sono una figura lavorativa immersa in un bacino di lavoro vivo dove, accanto a loro, ci sono knowledge workers, dipendenti manuali, creativi, facchini che vivono la stessa condizione di precarietà, di bassi salari e di diritti negati. I riders, dunque, come staffette tra i tanti nodi del lavoro en general.