Anche nel buio illuminato dai bagliori dei neon, all’interno dei musei e perfino dove si consuma la finzione, le vestigia della romanità vibrano di luce propria. Un tema a cui il fotografo Alfred Seiland (St. Michael, Austria 1952) ha dedicato il progetto Imperium Romanum. Fotografie 2005 -2020, cuore della IV edizione di Brescia Photo Festival (fino al 17 ottobre). Nel 2019 Seiland ha fotografato la nota statua bronzea della metà del I sec. D.c. della Vittoria Alata, rinvenuta nel 1826 nell’antica Brixia, durante le fasi del restauro, coricata su un giaciglio di gommapiuma verde e magenta all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Una foto che è fra gli scatti inediti sul Capitolium esposti in questa sua prima antologica in Italia (a cura di Filippo Maggia e Francesca Morandini), organizzata al Museo di Santa Giulia dalla Fondazione Brescia Musei, Comune di Brescia e coprodotta da Skira.
Dalla stazione ferroviaria «Teatro romano» di Magonza ai resti accanto al traliccio dell’energia elettrica nella città di Cuicul (Algeria), fino al Tempio di Giove (trasformato in parcheggio) a Damasco, alla Villa di Nerone adiacente all’antico porto di Anzio nella convivenza forzata con i bagnanti e in numerosi altri luoghi, tra cui la rotatoria di Beit Shean (Israele) con visibili resti di colonne con capitello corinzio, il fotografo austriaco anche docente di fotografia all’Accademia statale di belle arti di Stoccarda ha tracciato una mappatura diversa dalla visione stereotipata.
In questi quindici anni è tornato spesso in luoghi già visitati, dal Nord Europa al Mediterraneo, pronto a cogliere il senso di continuità passato/presente: viaggi all’insegna della lentezza in cui la fotografia a colori di grande formato restituisce una fitta trama di imprevedibili contaminazioni.

Il fotografo davanti al Capitolium, Brescia. Foto di Manuela De Leonardis

Da Cinecittà a Palmira passando per Las Vegas: per raccontare l’impero romano è partito dalla finzione. «Imperium Romanum» è diventato quasi un’ossessione?
Il progetto è iniziato a Roma nel 2006 senza essere stato pianificato. Il New York Times mi aveva incaricato di fotografare a Cinecittà le riprese della serie tv Rome. Ero libero di fotografare a modo mio, senza limitazioni. Da subito rimasi impressionato dalle scenografie di Cinecittà, proprio per lo sconfinamento tra realtà e finzione. Bisognava bussare su una colonna per capire se era vera. Era marmo o plastica? A terra, però, c’erano delle pietre vere come nella pavimentazione che si vede camminando sull’Appia Antica. Il processo che ho utilizzato è lo stesso che appartiene a tutto il mio lavoro. Mi concentro sulla decisione di come scattare una fotografia, specie nel contesto del soggetto.
Le immagini di Cinecittà sono completamente diverse da quelle di un parco archeologico, eppure se non si guarda con attenzione possono sembrare simili. Sono stato molte volte a Roma, prima e dopo quest’incarico, sempre affascinato dalla convivenza tra vecchio e nuovo, ma fotografare Cinecittà ha dato la direzione al lavoro permettendomi di includere idee diverse e anche altri soggetti. Una volta finito, ho deciso di continuare il progetto. Allora non sapevo dove mi avrebbe portato. Trascorso un anno, dopo essere stato in vari siti archeologici famosi fotografati da milioni di persone, ho trovato la strada: avrei fotografato con un punto di vista moderno. Non erano importanti solo siti, monumenti e rovine in sé: il contesto circostante doveva essere parte del progetto e soprattutto del mio personale approccio fotografico.

Solo recandosi in un luogo capisce se può essere funzionale al progetto: anche la fase della ricerca è importante? Si confronta con gli archeologi?
La preparazione è importantissima. Studio, leggo molto sui monumenti, sulle rovine e mi faccio spiegare la storia dagli archeologi per cercare di sapere il più possibile. Non voglio che il mio lavoro sia una sterile documentazione del luogo, ma che esso si presenti da sé attraverso le mie fotografie. Nel tempo ho capito quanto fosse importante fotografare anche all’interno dei musei e in quei posti dove a occhio nudo non si vede nulla, ma che custodiscono la storia del passato. Come i campi di battaglia o le cave a Pardais in Portogallo, in Italia a Marino, Carrara e altrove. Un altro aspetto che ho trattato riguarda il modo in cui l’industria cinematografica si è relazionata a questo soggetto, considerando anche Las Vegas dove sono stati realizzati numerosi edifici nello stile dell’Antica Roma come il Caesars Palace. Volevo rappresentare il senso contemporaneo dell’antico anche sottolineando l’attuale condizione dei siti che in alcuni casi, come in Turchia, sono stati addirittura distrutti per costruire nuovi edifici perché considerati non abbastanza importanti. Molti luoghi – benché siano patrimonio Unesco – sono fatiscenti e, nello stato attuale, appaiono diversamente dalle immagini che li raffigurano. In alcuni casi, in Algeria ad esempio, proprio per questo non mi sono stati dati i permessi per fotografare.

Si coglie anche una vena ironica nel suo lavoro…
Questo rientra nel mio sguardo fin da quando fotografavo negli Stati Uniti, alla fine degli anni ’70. Cerco di scovare i dettagli ironici che le persone spesso non colgono al primo sguardo. Solo quando si avvicina all’immagine una seconda volta e osserva meglio allora sorride. Un’ironia sottile, da scoprire un po’ alla volta.

Pensa che la pazienza sia una caratteristica importante per un fotografo?
Certamente dipende dal tipo di attrezzatura che si usa. Nella street photography è difficile avere pazienza, ma se si usa il banco ottico con il treppiedi, sapendo che solo un’esposizione costa 10 euro senza mettere in conto i passaggi successivi per la produzione della stampa, la pazienza è fondamentale. Per quanto mi riguarda, deve esserci una forte connessione con il luogo, bisogna saper cogliere i suoi significati, i dettagli dei monumenti, la combinazione tra elementi diversi. Solo allora si forma l’idea e capisco qual è la foto che voglio ottenere. Per questo è necessario guardare a lungo, tornare a guardare.