Il Mediterraneo è molto più di un mare. L’attenzione per questo «oggetto» storiografico ha prodotto, negli ultimi decenni, interessanti riflessioni e talvolta, come ha chiarito Giovanna Fiume sull’«Indice dei libri del mese», vere e proprie forzature.

Il paradigma dell’unità culturale dello spazio mediterraneo, formulato nel 1949 da Fernand Braudel è stato, ad esempio, rimesso in discussione da numerosi studiosi. Si pensi al lavoro di Peregrin Horden e Nicholas Purcell, The Corrupting Sea (2000), nel quale la categoria di connectivity è introdotta per descrivere la fitta rete di relazioni (sociali, culturali, economiche) tra una miriade di subregioni mediterranee. Altri ricercatori, inoltre, hanno analizzato le influenze, le relazioni e le contaminazioni culturali con molteplici territori del bacino geografico (Fawaz-Bayly-Ilbert; Gabaccia-Hoerder).

In Rithinking the Mediterranean, David Abulafia ha proposto l’idea dell’esistenza di molti Mediterranei, tra loro connessi e confinanti. Qualche anno dopo, nel 2008, Iain Chambers ha dato alle stampe Mediterranean Crossings, testo nel quale lo spazio mediterraneo è indagato in una duplice prospettiva: è uno spazio mutabile, di attraversamenti; ma anche il prodotto di classificazioni geografiche, politiche e storiche. Il Mediterraneo di The Great Sea, testo di Abulafia uscito nel 2013, si estende ben oltre i confini geografici, sostenendo che il Mediterraneo non è fatto di solo mare – si pensi alle migrazioni transcontinentali, ai deserti, ad esempio. Zapruder, rivista di storia della conflittualità sociale, ha inoltre dedicato il numero 33, uscito a gennaio 2014, ai Movimenti nel Mediterraneo. Andrea Brazzoduro e Liliana Ellena, curatori del volume, hanno indicano un ulteriore percorso di ricerca, «individuando nei movimenti che attraversano il Mediterraneo delle linee di frattura che spingono a scomporre le lenti interpretative, restringendo lo sguardo su specifiche città, reti locali, biografie e allo stesso tempo allargandolo ad una dimensione globale».

Contatti marini

Uno sguardo simile è adottato anche nel recente Mediterranean Diasporas, edito per Bloomsbury e dedicato alla circolazione di idee nel bacino mediterraneo nel lungo Ottocento. Il volume raccoglie dieci interessanti saggi di studiosi che lavorano su aree differenti: l’Europa del Sud, i Balcani e l’Impero Ottomano. I curatori sono Maurizio Isabella, Senior Lecturer presso la Queen Mary University, e Konstantina Zanou, assistant professor presso la Columbia University. Nell’introduzione mettono a fuoco il filo rosso che lega tutti i contributi: «il Mediterraneo è inteso come spazio malleabile di contatto, di incontro, di interazione tra le sue genti diverse ed eterogenee. La sua storia è una storia di interconnessioni e delle loro molteplici forme».

«La storia del nostro Mediterraneo – continuano Isabella e Zanou – riguarda interamente i contatti, sia pacifici sia violenti; è una storia dinamica, interattiva e trans-Mediterranea».

Isabella e Zanou introducono, poi, un altro elemento teorico di rilievo. Riutilizzano il termine «diaspora» – coniato inizialmente per definire la condizione degli ebrei e successivamente impiegato con valenze religiose – per leggere i percorsi individuali e i movimenti di idee nel bacino del Mediterraneo. Tale approccio ha interessanti ricadute dal punto di vista interpretativo: «non sono più i centri che producono le loro diaspore, ma piuttosto le diaspore che reinventano i loro centri».

Sulla base di questo assunto, nel volume per «diaspora» non si intende l’estensione della terra d’origine, ma i luoghi dove coscienze individuali e collettive si sviluppano in modo proprio, ragionando sui concetti come «nazione» e «imperialismo». Diaspora, ancora, è utilizzato per leggere gli spazi di comunicazione e le zone di contatto, gli spazi sociali dove le culture si incontrano, si scontrano e si confrontano.

Numerosi i contributi del volume: Juan Luis Simal esamina le lettere degli esiliati in Spagna dopo la promulgazione della Costituzione di Cadice, mentre Gabriel Paquette riferisce sulle idee di Almeida Garrett, poeta e politico portoghese, durante gli anni rivoluzionari che vanno dal 1820 al 1834. Grégoire Bron, nel terzo capitolo, studia l’impatto dei moti del 1820-1848 sulla penisola iberica, mentre Maurizio Isabella, nel quarto, approfondisce la produzione di ideali liberali di quegli intellettuali «italiani»’ esiliati tra il 1800 e il 1830.

Scacco, in dieci mosse

Ian Coller, nel suo scritto, analizza il pensiero di Hassuna D’Ghies, intellettuale tripolino divenuto direttore di Le Moniteur Ottoman. Nel sesto capitolo Konstantina Zanou propone un itinerario storiografico in cui la Grecia è legata all’impero russo e alle isole dello Ionio. L’approccio di Dominique Kirchner Reill compara il pensiero di tre rilevanti intellettuali del 19° secolo – Nicolò Tommaseo, Pacifico Valussi e Matija Ban – che hanno dedicato pagine importanti al ruolo svolto dal Mediterraneo nella costruzione di identità. L’ottavo capitolo, siglato da Adrew Arsan, indaga il pensiero di Mustafa Fazil Pasa, patron dei Giovani Ottomani e figura rilevante nel reinventare una identità turca adeguata alla modernità. Le traiettorie del nazionalismo albanese negli scritti di Girolamo de Reda e Shemseddin Sami Frasheri, dal Sud Italia a Istanbul, sono al centro del saggio di Isabella e Artan Puto. L’ultimo capitolo, di Vangelis Kechriotis, affronta il tema della diaspora greca-ortodossa dei Caramanli alla fine dell’Impero Ottomano.