Cos’è il Mediterraneo? È, in primo luogo, un mare circondato da terre, più caldo e più protetto dalle intemperie di quanto non siano gli oceani aperti, dotato di una sua storia plurimillenaria, luogo d’origine di alcune fra le civiltà più antiche della storia dell’umanità. Mare nostrum dell’impero romano, fu modificato dalla ventata islamica che nel giro di un venticinquennio, fra l’Egira e la metà del secolo VII, cancellò l’impero persiano e costrinse quello romano-bizantino a rivedere tutta la sua politica territoriale e difensiva, obbligandolo ad abbandonare la costa africana e spartire con essa una talassocrazia fino ad allora indiscussa. Al volgere del primo Millennio dell’era corrente il grande commercio mediterraneo era infatti saldamente nelle mani dei mercanti bizantini e soprattutto arabi. Anche se le merci più pregiate provenivano dal continente asiatico, i traffici mediterranei avevano un segmento importante anche nella porzione occidentale del Mediterraneo, una sorta di imperfetto triangolo che collegava Sicilia, Maghreb e al-Andalus. Gli archivi della Geniza del Cairo conservano documenti dai quali emerge una presenza precoce di mercanti occidentali che si muovevano fra questi porti, e anche oltre. Mercanti baresi, veneziani, amalfitani, pisani e genovesi sono attestati in molti porti del Mediterraneo bizantino e arabo già dal X secolo. Dal successivo, tuttavia, alcune fra queste città si fecero più intraprendenti, accostando brevi spedizioni militari al normale traffico dei commerci. Da quel momento l’Europa occidentale, nel frattempo divenuta qualcosa di nuovo e differente rispetto alla pars occidentis dell’impero romano, tornò a essere una delle protagoniste nelle acque del Mediterraneo. Fino all’espansione ottomana, fino all’inaugurazione dell’interesse per la circumnavigazione dell’Africa e per le nuove rotte atlantiche, che non decretarono tuttavia il tramonto del Mediterraneo, ma che certo vi apportarono modifiche rilevanti. Se può sembrar difficile sintetizzare tutto questo in un solo volume, l’idea è affascinante: ci prova uno specialista del settore, David Abulafia, ne Il grande mare. Storia del Mediterraneo (Mondadori, 696 pp., 35 euro), che si apre appunto con il Mediterraneo d’epoca protostorica per poi condurre il discorso fino ai nostri giorni.

È chiaro che per Abulafia l’età d’oro è costituita soprattutto dal basso medioevo, ossia dall’epoca che fino a questo momento l’ha interessato come studioso. Durante quei secoli, in alcune città marinare italiche – alle quali se ne aggiungeranno poi alcuni provenzali, come Marsiglia, o catalani come Barcellona – si svilupparono, in complesso rapporto con l’antica aristocrazia urbana o quella nuova d’origine basso-feudale inurbata da poco, ceti dediti specificamente ad attività mercantili e armatoriali. Ad essi si deve l’affermarsi di un nuovo e più audace modo di fare affari: quello di riunirsi in «compagnie», «commende», societates, mettendo in comune capitali e accettando certi rischi allo scopo di realizzare precisi guadagni. Poiché i grandi commerci si svolgevano per vie marittime, essi avevano naturalmente bisogno di navi e di naviganti: ed ecco che le città marittime si riempirono di cantieri con i relativi lavoratori e di marinai. Fu questa una rivoluzione economica e in parte sociale. Non ancora tecnologica, in quanto – salvo forse per le dimensioni – l’accresciuta mobilità marittima non condusse a sostanziali modifiche nei tipi nautici, che continuarono a rispondere alle tradizionali condizioni di navigazione nel Mediterraneo.

Il capitolo centrale si apre con l’atrofia altomedievale e si conclude significativamente con la «serrata» (1291-1350), termine che Abulafia mutua dalla storia veneziana e che in realtà allude a tutto il periodo compreso fra la caduta di Acri e la Peste Nera. Il riferimento a Venezia indica la centralità di questa città per la storia del Mediterraneo, soprattutto nella sua parte orientale, come si evince anche dalla bella sintesi di Giorgio Ravegnani, Il doge di Venezia (il Mulino, 2013, 196 pp., 13,50 euro), che attraverso l’istituzione leader della città adriatica ripercorre la storia di tutta una civiltà urbana e marittima, partendo dalle origini per arrivare fino all’ultimo doge di Venezia, Lodovico Manin, morto nel 1802.

È interessante notare come Abulafia non sembri dare all’avanzata ottomana e alla conquista di Costantinopoli del 1453 il significato di una cesura nella storia del Mediterraneo. Lo fu forse più nella dinamica politica interna all’Occidente, per quanto si evince da Le crociate dopo le crociate di Marco Pellegrini (il Mulino, 2013, pp. 384, 25 euro), un testo che analizza il periodo Da Nicopoli a Belgrado (1396-1456), come recita il sottotitolo. Si tratta di una fase tardiva del movimento crociato, ovviamente legato all’espansione degli Ottomani nel Mediterraneo orientale e nei Balcani, alla quale in tempi recenti si tende a prestare maggiore attenzione che nel passato. Tuttavia, anche se questa fase presenta caratteri distintivi rispetto a quella delle cosiddette crociate del pieno medioevo, una storia sulla lunga durata, qual è quella di Abulafia, aiuta a collocare l’ascesa ottomana nella dinamica più adeguata rispetto a quanto non sembri fare Pellegrini, che resta invece ancorato all’idea di una contrapposizione fra Cristianità e Islam ottomano: politica se non sempre e non soltanto religiosa.

Lì dove invece Abulafia, nel succedersi delle civiltà che hanno popolato le acque e le sponde del Mediterraneo, riesce a collocare la presenza turca nell’economia complessiva dello scenario tardo-medievale e primo-moderno, non come un corpo estraneo, ma quale nuova pedina nello scacchiere euromediterraneo, e dunque in continua interazione con le città italiane e le potenze europee.