Che cosa rimane delle «primavere arabe», delle rivolte iniziate nel dicembre 2010 in Tunisia e che hanno poi contagiato Egitto, Libia, Siria, Yemen, Bahrain, parzialmente l’Iraq? Alcuni libri recenti ci aiutano a trovare una risposta. Quello di Giuseppe Acconcia, firma ben conosciuta dai lettori del manifesto, è dedicato all’Egitto, ed è un reportage realizzato tra la fase immediatamente successiva alle dimissioni forzate di Hosni Mubarak e quella, più recente, che segna la presidenza di Abdel Fattah al-Sisi, l’ex generale e membro del Consiglio supremo delle Forze armate eletto il 27 maggio 2014 con un voto boicottato dalla maggioranza degli egiziani.
È una parabola storica di fondamentale importanza, quella di cui è stato testimone l’autore di Egitto. Democrazia militare (Exòrma, pp. 240, euro 14): «quattro anni di movimenti sociali, di aspirazioni culminate nella repressione», dalle barricate degli attivisti di piazza Tahrir alla strumentalizzazione e al discredito verso i movimenti giovanili, liberali e di sinistra, fino al ritorno all’ordine imposto dall’élite militare con gli strumenti che le sono congeniali: «atti criminali sistematici contro i civili, processi politici, detenzioni di massa, omicidi, minacce, tortura nelle carceri».
Nel mezzo, c’è la cronaca dei momenti più significativi della storia recente del paese: la contestata elezione, il 30 giugno 2012, del presidente islamista Mohammed Morsi, il fallimento dei Fratelli musulmani al governo, «che hanno operato seguendo le stesse logiche di Mubarak»; il Golpe di stato militare del 3 luglio 2013 contro Morsi; il massacro di Rabaa al-Adaweya del 14 agosto 2013, quando la polizia spara sui manifestanti indifesi che contestano il golpe, causando almeno 867 morti: «in poche ore, le speranze di una pacifica transizione democratica di milioni di egiziani si infrangono con una carneficina». E poi il passaggio di al-Sisi dall’uniforme alla giacca e cravatta, simbolo di quell’«ambigua relazione tra elite militare e politica che domina l’Egitto dalla rivoluzione del 1952».

I rapper ribelli

Egitto. Democrazia militare è un reportage «politico», che però ha il pregio di raccontare le vicende politiche attraverso il filtro di quelle sociali e culturali, oltre che da prospettive molto diverse.
L’autore attraversa il Cairo in lungo e in largo, ma non si accontenta, sa che è rischioso «ingabbiare l’opposizione al regime all’interno di piazza Tahrir». Visita le fabbriche di Mahalla al-Kubra, nel Delta del Nilo, dove i Fratelli musulmani sono accusati di «essere dei feloul, uomini del vecchio regime»; a Port Said incontra i familiari degli ultras uccisi dagli uomini vicini al Partito nazionale democratico di Mubarak; si inoltra nel Sinai, dove i jihadisti si alleano con i giovani beduini e con i contrabbandieri e lo Stato è solo repressione e brutalità; da Alessandria passa a Suez, «città di soldati e lavoratori», discutendo con sindacalisti e operai.
Al Cairo incontra i rapper le cui strofe hanno ispirato le rivolte; dà voce agli «zebelin», gli uomini che ogni giorno raccolgono i rifiuti. Finisce poi nei quartieri «6 ottobre» e «Rehab», nella «piccola Siria», dove «profughi, rifugiati, politici scappati dalla guerra di Assad trovano un riparo, e forse una nuova vita».
E proprio alla guerra di Assad, o meglio alla guerra contro Assad, è dedicato il libro della giornalista Francesca Borri, Una guerra dentro (Bompiani). I ribelli, scrive l’autrice, hanno tutti una storia simile: sono «operai, ingegneri, camionisti, studenti, commercianti: hanno visto la Tunisia, in televisione, hanno visto l’Egitto, e hanno cominciato a protestare anche loro. Corteo dopo corteo, pacifici».
Poi la repressione di Assad, le armi al posto degli striscioni, «la primavera siriana che diventa la guerra di Siria», la fine della resistenza popolare, uno scontro che «sempre più diventa guerra per procura», la popolazione «in trappola tra un regime feroce e un’opposizione disorganizzata, di ventenni in maglietta e fucile», fino alla progressiva affermazione dei gruppi islamisti, «sempre più numerosi e sempre più radicali», prima rispettati, poi temuti.

L’ignoranza dei giornalisti

Più che per la cronaca del conflitto siriano, Una guerra dentro risulta però interessante per le riflessioni dell’autrice sul giornalismo di guerra, per la messa in scena del «dietro le quinte». L’autrice è onesta: allieva di Antonio Cassese – primo presidente del Tribunale internazionale dell’Aja, scomparso nel 2011 – nel giornalismo vede un mezzo per denunciare le ingiustizie, per dare voce ai senza voce, per risvegliare le coscienze (e quietare la propria).
Le risulta facile bersagliare il circo mediatico: giornalisti – compresa lei – che pagano trecento dollari ai ribelli «per il giro turistico della Aleppo sotto attacco»; corrispondenti delle tv che non sanno «chi si oppone a chi e per quali ragioni»; cameraman inesperti che sbarcano in Siria «con giubbotto antiproiettile e bermuda», in tasca una guida Lonely Planet; direttori e capo-redattori cinici che chiedono solo le storie forti, il jihadista europeo, la cecchina in tacco sette. È consapevole, l’autrice di Una guerra dentro: sa che in ogni conflitto si rischia di «essere strumento di propaganda»; che l’assuefazione alla morte trasforma i giornalisti in stenografi anestetizzati; riconosce i limiti e ironizza sull’«aura dell’eroe indomito, tu che rischi la vita per dare voce ai senza voce», il «dito puntato contro tutti gli indifferenti del mondo».
È onesta e consapevole, Francesca Borri. Non abbastanza però per fare quel passo indietro che pure invoca come necessario: «indietro dal fronte, o più esattamente intorno», perché «la guerra non è il fronte, è tutto il resto – tutto quello che sta intorno al fronte e lo genera». La guerra dentro, infatti, è un libro tutto centrato sul fronte, sullo stesso «sangue e bum bum» che chiedono i caporedattori cinici.
Un libro in cui si insiste troppo, con scrittura a tratti perfino compiaciuta, sui «bambini stravolti e smagriti, una maglia sdrucita e poco altro, la pelle riarsa, logora sugli spigoli delle scapole», in cui ci si muove sempre tra bombe e pezzi di cranio scambiati per calcinacci, tra i rantoli dei moribondi che «incrinano l’aria rappresa della controra», tra «corpi carbonizzati, occhi spalancati, orbite vuote», tra «stracci di carne, bambini di carbone». Tra bambini nati «in una tomba, in un’alba di missili». Un libro in cui, a dispetto del buone intenzioni, il feticismo del conflitto nasconde «tutto quello che sta intorno al fronte e lo genera».
Fare un passo indietro rispetto al fronte, per capire le ragioni che generano e alimentano la guerra, è l’obiettivo esplicito de La crisi irachena. Cause ed effetti di una storia che non insegna (Edizioni dell’Asino, pp. 60, euro 5), a cura di Osservatorio Iraq–Medio Oriente e Nord Africa e di Un ponte per…, associazione di volontariato e solidarietà internazionale.
Il libro ha visto la luce grazie al lavoro di coordinamento di Cecilia Dalla Negra e Stefano Nanni e include contributi di autori diversi, accomunati dall’idea che, «per rilanciare un approccio alternativo ai conflitti» (Giulio Marcon e Francesco Martone), in particolare a quello iracheno, «non si possa prescindere dalla storia, almeno quella degli ultimi trent’anni» (Enzo Mangini, Stefano Nanni).
L’interesse maggiore è però rivolto al periodo post-Saddam Hussein. Dal 2003 parte l’analisi di Roberto Iannuzzi, ricercatore all’Unione delle Università del Mediterraneo (Unimed), che lega la riconfigurazione dell’Iraq su basi etniche e confessionali e la presa del potere della componente sciita ai riposizionamenti strategici di Iran, Arabia Saudita e Turchia, per chiudere sul paradosso attuale: «il fatto che gli Stati sunniti che fanno parte della coalizione anti-Is sono gli stessi che hanno contribuito a far emergere lo Stato islamico».
Allo Stato islamico sono dedicati i saggi di Clara Cappelli e di Ludovico Carlino: la prima prova a ricostruirne la strategia economica, il secondo offre un profilo biografico-militare del «califfo» Abu Bakr al-Baghdadi.

False incompatibilità

Il giornalista iracheno Latif al-Saadi, in Italia dal 1994, individua le premesse del settarismo attuale nelle politiche promosse e avallate dalla Coalition Provisional Authority guidata dal governatore statunitense Paul Bremer III, mentre Martina Pignatti Morano fornisce uno spaccato della repressione subita dall’opposizione politica e dai movimenti sociali: «il fatto che la resistenza armata sia cresciuta tra le tribù sunnite, e abbia deciso perfino di allearsi a una fazione lontana dalla cultura irachena come l’Is, è dovuto in parte agli ostacoli posti dal governo alla resistenza civile e nonviolenta».
L’esule iracheno Jasim Tawfik Mustafa invita a evitare facili entusiasmi sul ’successo diplomatico dei kurdi’: «anche se, per la prima volta nella storia, i combattenti di tutte le aree del Kurdistan storico combattono contro un unico nemico, non è affatto scontato che le rispettive agende politiche siano compatibili tra loro e soprattutto con le intenzioni dei paesi che appoggiano la nuova ’guerra globale contro il jihadismo’».
Domenico Chirico critica la miopia della comunità internazionale, immobile di fronte «alla guerra silenziosa» successiva al 2003, mentre Francesco Vignarca punta il dito sull’ipocrisia dell’Europa, che arma i peshmerga «per fermare qualsiasi accusa di inazione» senza «immischiarsi troppo in un pantano» inevitabile.
La crisi irachena
è uno strumento utile per comprendere le ragioni della crisi irachena. Meno utile risulta sul «che fare»: troppo rituale suona il generico invito di Giulio Marcon e Francesco Martone al ritorno alle Nazioni Unite «che, uniche, possono avere un ruolo di prevenzione dei conflitti e di costruzione della pace».
Il libro verrà presentato oggi alle 19.45 al Salone dell’editoria sociale di Roma, mentre Giuseppe Acconcia, Emanuele Giordana e l’editore Orfeo Pagnani parleranno di Egitto. Democrazia militare sabato 18 ottobre alle 16, nell’ambito della stessa manifestazione.