Grande vittoria del Fronte giustizialista alle presidenziali in Argentina, problematico successo del Fronte amplio al primo turno delle elezioni politiche in Uruguay (dove non è passato il referendum dell’estrema destra per militarizzare la sicurezza), dura sconfitta della destra di Uribe nelle regionali in Colombia, dove nelle maggiori città sono emerse forze alternative ai partiti tradizionali.

Se vi è un nesso tra questi risultati elettorali e le proteste, o vere e proprie rivolte sociali, che da più di un mese scuotono l’America latina da Haiti al Cile, dal Centro America alle Ande, è la lotta alla diseguaglianza prodotta dalla politica neoliberista adottata dalla maggioranza dei governi- tutti legati da un rapporto di vassallaggio agli Usa. E al rifiuto delle ricette del Fmi, che di tale politiche è visto come il braccio armato. Certo, è difficile racchiudere in una spiegazione semplice e univoca il movimento tellurico che scuote un subcontinente composto da una ventina di nazioni e abitato da 600 milioni di persone. Ma la grande frustrazione delle aspettative di miglioramento della vita, la messa in questione di un modello economico imposto dai cosiddetti Chicago Boys dall’epoca della dittatura di Pinochet e la generale disaffezione dai partiti tradizionali sono il grande combustibile di un incendio subcontinentale che non sembra destinato a consumarsi in tempi brevi. Le attuali proteste avvengono in un contesto di crisi economica globale ma che in America latina colpisce più duramente.

Le previsioni di crescita per il subcontinente sono del 0,2%,in gran parte prodotto dalla fine del boom delle materie prime. Secondo il Cepal, organismo dell’Onu che misura l’economia dell’America latina, vi sono più di 60 milioni di persone (il 10,2% della popolazione) in condizione di povertà estrema. La precarietà della vita e la frustrazione di ogni speranza di miglioramento di fronte alla corruzione delle élite politiche (tutti gli ultimi ex presidenti del Perù sono in carcere per corruzione e uno si è tolto la vita per non finire in cella) e alle grandi ricchezze di un pugno di famiglie costituiscono uno dei denominatori comune delle proteste.
In Cile i giovani in rivolta gridano «non è per 30 pesos (aumento del metro) ma per 30 anni» di neolibelismo. Per alcuni commentatori la loro lotta fa riferimento ai gilet gialli della Francia. Comunque si impone la tesi di «fine del modello cileno» quello vantato dai Chicago Boys.

In Argentina la vittoria di Maurizio Macri, quattro anni fa, sembrava invece la conferma della validità del «modello cileno»: una destra «dalla faccia pulita» arrivava al potere sconfiggendo i populisti e sovranisti del partito giustizialista. Dopo quattro anni i risultati sono catastrofici: debito pubblico, disoccupazione, povertà sono raddoppiati.

Il primo, grazie anche ai 56 miliardi di prestito del Fmi, ormai è quasi il 100% del Pil, la disoccupazione all’11%, il tasso di povertà al 36% (in un paese che produce alimenti per 400 milioni di persone e ha una popolazione di poco più di 40 milioni). La vittoria dei peronisti in Argentina e le proteste popolari «sono molto legate con il modello economico che, dagli anni ’90, si cerca continuamente di implementare» in America latina, afferma Luciana Cadahia, ricercatrice del Calas Andes.

Andrés Oppenheimer (Usa) e Carlos A Montaner (Messico), i maggiori analisti di destra della realtà latinoamericana hanno invece un’altra tesi: che «i comunisti» e il «Castro-chavismo» vogliono «distruggere il Cile», ovvero «una società che ha successo e che domanda standard di vita come quelli degli Usa» e imporre a tutto il subcontinente la disastrosa situazione economica e sociale che regna a Cuba e in Venezuela. Per loro è poco più che demagogia l’indice Gini (che misura la diseguaglianza sociale) assai alto del Cile (50) citato dall’«equivocato libro di Thomas Piketty sul capitalismo del XXI secolo» per sostenere l’enorme diseguaglianza che regna in un paese, indicato invece come modello per tutto il subcontinente.

Fautori di questa tesi sono i falchi dell’Amministrazione Trump che nelle ultime settimane hanno incrementato lo strangolamento delle economie di Cuba (l’ultima misura di pochi giorni fa la proibizioni di voli commerciali di compagnie statunitensi a Cuba eccetto che all’Avana) e Venezuela. Misure spacciate per sostenere i diritti umani dei cittadini cubani e venezuelani e che invece aumentano in modo criminale le difficoltà di vita dei medesimi. Ed evidentemente non hanno alcun impatto nelle proteste popolari in America latina.

La sfida dei movimenti popolari nel subcontinente riguarda anche i governi progressisti – vecchi e nuovi -: non bastano le politiche di redistribuzione del reddito è il modello di sviluppo – in gran parte estrattivista – a essere messo in discussione.