Il Pdl, con un emendamento del previtiano senatore Bruno, vuole allargare il campo delle riforme a tutta la seconda parte della Costituzione, dunque anche al Titolo IV: «La magistratura». Scatta il riflesso del Pd, piovono dichiarazioni allarmate, si indignano dirigenti di primo e secondo piano: «Inaccettabile». Interviene anche Saviano: «Terribile». È piuttosto inevitabile, invece, visto che il Pdl propone l’elezione diretta del presidente della Repubblica e il Pd lo segue sulla strada del semipresidenzialismo.
Modificare il ruolo del Capo dello stato non è meno pesante – e pericoloso – che cambiarlo ai pubblici ministeri, eppure il partito di Epifani ha votato la mozione che invita a riscrivere l’intero Titolo II. «Il presidente della Repubblica», appunto. Casomai lo facessero davvero, bisognerebbe per forza intervenire anche sulla giustizia. A meno di non lasciare un presidente non più di garanzia (Berlusconi?) alla guida del Csm. Anzi, andrebbe toccato anche il Titolo VI, «Garanzie costituzionali», visto che il capo dello stato oggi sceglie un terzo dei giudici della Consulta. Il banchetto delle riforme, allestito dal governo per allungarsi la vita – a tavola non si invecchia – è indigesto dalla prima all’ultima portata. Il condimento offerto dai berlusconiani non è sopraffino, né probabilmente disinteressato. Ma l’indignazione del Pd è velenosa, goffo tentativo di scaricare sugli avversari, pardon alleati, la responsabilità del precoce fallimento delle riforme.

Del resto i senatori del partito democratico hanno presentato un emendamento assai simile a quello «inaccettabile» del Pdl. Anche loro si rendono conto che – nell’improbabile ipotesi che si vada avanti a riformare forma di stato, di governo e ruolo del presidente della Repubblica, tutto cioè tranne la legge elettorale – che anche i Titoli IV e VI della seconda parte della Costituzione andranno rivisti. Però, prudenti, i democratici nella loro proposta di modifica al disegno di legge del governo hanno scritto che il «comitato dei 40» potrà intervenire sugli «articoli strettamente connessi a quelli modificati che sono contenuti in altri Titoli».

La formulazione del Pdl è più ampia ma non meno corretta. Lascia aperta la porta a tutti i sogni proibiti di Berlusconi sulla magistratura (l’elenco è lungo: giudici non più soggetti solo alla legge, separazione delle carriere, Csm controllato dal governo, Consulta imbavagliata…), è vero. Ma il partito del Cavaliere (grazie al Porcellum) in questo parlamento non ha nemmeno lontanamente i numeri per realizzare uno solo di questi desideri, né nelle commissioni, né nell’eventuale comitato né nelle aule di camera e senato. A meno che il Pd non pensi di proporre al Cavaliere un patto simile a quello della bicamerale D’Alema, dove si scambiavano bozze sulla giustizia con aperture al premierato. È improbabile, ma forse è questo vecchio e imbarazzante ricordo che gonfia lo scandalo odierno del Pd.

La partita dell riforme si dimostra una volta di più il terreno ideale per i giochi doppi dei partiti. La nuova legge elettorale, dichiarata ogni giorno indispensabile, continua a rimanere oltre l’orizzonte del possibile: seguirà, dicono, l’accordo sulle riforme. Che non c’è, infatti tutta la procedura barocca impalcata dal governo – si sta discutendo, ricordiamolo, ancora e solo di come fare le riforme costituzionali – è stata pensata per dare tempo ai partiti di trovare un accordo su presidenzialismo e bicameralismo. E non fare la legge elettorale, che renderebbe immediatamente praticabile la soluzione dello scioglimento delle camere.

Si è diffusa però la voce che la corte Costituzionale abbia intenzione di calendarizzare molto presto l’udienza nella quale dovrà decidere sull’incostituzionalità del Porcellum. Con la costituzione delle parti tutto è tecnicamente pronto per esaminare gli atti arrivati dalla Cassazione. È vero che i tempi tradizionali della Consulta sono più lunghi, ma nel Palazzo si riflette sul fatto che a metà settembre terminerà il mandato l’attuale presidente della Corte, Franco Gallo, notoriamente convinto che la legge elettorale in vigore abbia più di un problema di costituzionalità. Dopo di lui è destinato a diventare presidente Luigi Mazzella, giudice molto vicino a Berlusconi – è stato ministro del suo secondo governo e poi padrone di casa nella famosa cena con il Cavaliere in pendenza della decisione sul lodo Alfano. E Berlusconi si sa quanto tenga al Porcellum.

Potrebbe allora essere la Corte a costringere la maggioranza a lasciar perdere le riforme impossibili per dedicarsi a quelle urgenti. Potrebbe, ma nel frattempo il ministro Franceschini si arrabbia se Sel e Lega gli fanno notare che nel calendario dei lavori della camera sarebbe meglio inserire la legge elettorale. Il ministro dei rapporti con il parlamento preferisce spingere sulle riforme costituzionali e si dice addirittura «stupito» che le opposizioni non lo seguano, continuando la finzione che siano state le camere a chiedere al governo tempi stretti per cambiare la Costituzione (è cosa nota che le mozioni parlamentari le ha dettate l’esecutivo delle larghe intese). Di stupore in finzione, Franceschini garantisce anche che il governo «è disponibile» a cambiare la legge elettorale, ma «non spetta a noi, è il parlamento che deve trovare un’intesa». Come se il discorso non valesse a maggior ragione per le modifiche alla Costituzione, che invece il governo si è intestato nel metodo (ha presentato lui il disegno di legge che deroga all’articolo 138) e nel merito (continua a far esercitare i «saggi»).

La verità è che la maggioranza non ha fatto un solo passo nella direzione di un accordo, né sulle riforme né sulla legge elettorale. Si agita in questioni accademiche, chiede procedure urgenti e poi fa saltare le poche sedute disponibili (come ieri al senato). Le grandi riforme, allora, sono annunciate alla camera niente meno che per il 29 luglio, vigilia delle ferie. In teoria questo significherebbe che i deputati (che sono il doppio) avranno la metà del tempo che hanno avuto i senatori per digerire l’argomento. In pratica significa che ad agosto assisteremo a un altro rinvio, con tanti saluti al «cronoprogramma» del ministro Quagliariello.