Alcune espressioni linguistiche si distinguono per la molestia che sono in grado di suscitare. Esistono frasi stereotipate capaci di funestare con regolarità la nostra esperienza quotidiana. Si pensi, ad esempio, agli appelli a una interiorità che si presume, con compiacimento, indicibile: «non puoi sapere cosa sto provando in questo momento»; «solo chi vive certe cose può comprenderle». Va ancora peggio quando capita di rifugiarsi in quel che viene definito il «senso comune». È grazie a questa entità, misteriosa almeno quanto quella della interiorità, che la nostra vita si ritrova irrigidita in un presente senza scampo: «Legalizzarle le droghe? No, il senso comune degli italiani non sarebbe pronto», e così via.

Sia dal punto di vista politico che da una prospettiva filosofica, interiorità indicibile e senso comune costituiscono una coppia solidale, discreta e devastante. Incarnano facce di una stessa medaglia, quella che da più parti non si esiterebbe a chiamare «anima». Contro una simile tenaglia teorica, l’ultimo libro di Daniel Heller-Roazen, Il tatto interno. Archeologia di una sensazione, Quodlibet, pp. 364 e 26,00) costituisce un antidoto formidabile. Lo stile è quello cui l’autore ci ha abituato nelle due opere precedenti (tradotte in italiano sempre per Quodlibet: Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue e Il nemico di tutti. Il pirata contro le nazioni). Capitoli precisi ma fulminei che, con pazienza e brio, formano un album in grado di fornire una immagine stravolta e originale di concetti, termini, parole da sempre sotto i nostri occhi. Per mezzo di cerchi concentrici che restringono sempre più il campo, Heller-Roazen mette a fuoco una tesi filosofica e politica netta. Nel corso dei millenni il pensiero occidentale ha finito col rimuovere e confinare in un alveo mistico una esperienza materialistica decisiva, che accomuna i sapiens alle altre forme di vita: «il senso grazie al quale gli esseri animati avvertono oscuramente di essere vivi». Il tatto interno che dà il titolo al libro è innanzitutto questo: la capacità di avvertire il proprio corpo che vive, sentirsi di carne e di ossa.

Ancora una volta è Aristotele a rivelarsi il serbatoio, luogo di deposito e primo stravolgimento, della maggior parte delle parole chiave della vita occidentale. Tra le pagine del De anima e in quel gruppo di scritti biologico-psicologici di solito chiamati Parva naturalia, fa capolino una nozione affascinante perché spesso ambigua, il «senso comune». Con una espressione ben diversa da quella che oggi affolla le nostre menti, Aristotele fa riferimento alla capacità in possesso di ogni essere che percepisce di mettere insieme esperienze eterogenee, di tenerle coese : il rosso e il dolce della fragola; l’umidità emozionata di un bacio; la corsa di un cane e il movimento saltellante del suo lungo pelo. Soprattutto, secondo Heller-Roazen, nel senso comune aristotelico troverebbe dimora la capacità di avvertire le proprie percezioni, la possibilità di percepire se stessi mentre si vede, respira, annusa.
Sono gli stoici a proseguire questo lavoro di scavo e profondità. A loro modo di vedere, ogni essere vivente sarebbe legato a un processo di autoconservazione. Non da intendersi però, come un paio di millenni dopo farà Darwin, nella accezione di «lotta per l’esistenza». Il riferimento è, invece, a una sensibilità che consenta un percorso di sintonizzazione con la propria costituzione organica. Ogni vivente nasce sfasato rispetto a se stesso: il recupero dell’armonia non avviene ammazzando il vicino di casa o competendo con il rivale della savana, quanto tramite una «sinestesia», cioè un percepire comune, che possa farci fare pace con il corpo nostro e altrui. Un sentire comune che si articola tramite urti (la struttura della materia), apprendimenti (la coordinazione motoria necessaria per ciascun vivente), continui tentativi di ritrovare l’equilibrio perduto come quelli, goffi e disperati, della tartaruga voltata sul guscio (immagine dal sapore stoico talmente potente da riuscire, detto per inciso, a smascherare persino la mancanza empatica dei cyborg del Blade Runner di Ridley Scott).

Con Agostino d’Ippona, però, la nozione si avvia verso un processo di introflessione, e da comune il senso diviene «interno». Nel tardo medioevo assume a volte carattere platonico diventando «prenozione», forma di conoscenza anticipata e universale. Ma è forse nella filosofia moderna che il senso comune conosce una polverizzazione che alla fine si rivela nociva per la sua tenuta teorica. Da un lato Tommaso Campanella lo estende a tutte le cose facendone il cardine di una visione magica nella quale tutto percepisce tutto: anche il vento, l’acqua e le foglie sentono. Per un altro verso Cartesio sacrifica il senso comune sull’altare dell’idea che per esistere non bisogna sentire ma, al contrario, pensare. Non più «sento, dunque sono», ma «penso, dunque sono».
La frattura è compiuta. Il pensiero separa quel che il tatto interno, il senso comune, riusciva a tenere insieme: l’umano e l’animale, il corpo e la mente, la percezione e il sentire. Ciò non vuol dire che questa opera di rimozione, filosofica ancor prima che teologica, abbia messo in scena un delitto perfetto. Leibniz insiste sulle varietà infinite che può assumere la coscienza, su quelle indefinite piccole percezioni che popolano il nostro sentire. Non solo tra i filosofi, ma anche nella letteratura e nella scienza riemergono fenomeni di soglia legati al sonno, alla riscoperta del corpo durante il risveglio e l’addormentamento. L’esperienza su cui puntava Aristotele non va perduta anche perché a riportare sulla scena il tatto interno ci pensa il sapere più materialistico e spregiudicato dell’ottocento: la neurofisiologia di Hübner, la biologia di Lamarck, la psichiatria di Janet, la medicina filosofica di Ribot contribuiscono a coniare e diffondere il termine «cinestesia» per indicare la capacità tattile di sentire i movimenti e individuare la posizione del corpo proprio.

È intorno a questo concetto che ruotano ricerche di confine, preziose quanto perturbanti: il fenomeno dell’arto fantasma che emerge nel vissuto di persone costrette all’amputazione ma che continuano a sentire la presenza di un pezzo di corpo che non c’è più; il delirio di negazione che schiaccia l’esistenza di malinconici tanto gravi da affermare con decisione di non avere più «né testa, né stomaco»; gli alienati che dubitano della realtà di quel che li circonda in preda a uno scetticismo che riguarda prima di tutto l’esistenza delle loro membra. Sono figure conturbanti, ricorda Heller-Roazen, perché predicono l’avvento di un’epoca, la nostra, nella quale il sentimento di essere vivi è dismesso, è finito in cantina.
Siamo divenuti «uomini senza qualità percettive», che provano difficoltà a esperire sia la gioia che il dolore. È su questo «sentire comune» che è possibile, invece, rifondare l’amicizia tra gli umani. Non il malinteso corrispondente a quella cosa melensa, clientelare e endogamica che illegittimamente si estende dalla famiglia alla cosa pubblica. Piuttosto il potere rivoltoso di una sensazione di esistenza condivisa e gioiosa che spazzi via l’interiorità indicibile del mistico turbato e anche, magari, qualche condotta che in nome dell’anima mortifica il corpo e le persone.