Chiunque si soffermasse al solo titolo del nuovo libro di Massimo Ilardi, La casa di Trastevere (manifestolibri, 14 euro) non potrebbe fare a meno di chiedersi se l’autore è la stessa persona che ha «incontrato» nella lettura di suoi precedenti – e ben differenti – libri. Perché Ilardi ha conosciuto diversi anni fa un certo successo con la critica feroce delle categorie fondative della modernità, come: nazione, paese, appartenenza, identità, ideologia, partito, famiglia, memoria. Tutto, meno che un apologo del passato, e dunque della memoria (come il titolo farebbe erroneamente pensare). Anzi l’eresia dell’autore è sempre consistita proprio nel vedere nella società dei consumi dei margini di libertà per i giovani che, usciti dalla gabbia dell’ideologia e da qualsiasi appartenenza, potevano attraversare i nuovi territori della metropoli senza più complessi di subalternità e senza più incontrare limiti al loro furore iconoclasta, guardando solo al presente («Non chiediamo il futuro perché ci prendiamo il presente», recita l’incipit del libro).

Personalmente ho spesso polemizzato con questa tesi dell’autore perché tale presunta «libertà» vuol dire concretamente essere omologati verso certi modelli consumistici, esibire ed esibirsi, essere attratti da sirene che fanno naufragare il nostro modo di essere, di autenticità, per assimilarci, col nostro consenso, al ciclo produttivo capitalistico. Tuttavia siamo debitori a Ilardi per le sue polemiche appassionate contro i sacerdoti di valori oggi profondamente cambiati di segno rispetto al passato; per le sue aspre polemiche contro il «dover essere» moralistico e, spesso, di una certa sinistra conservatrice. Non deve essere stato un percorso facile per lui indugiare a uno stile narrativo e «vincere quella naturale ritrosia che ti assale ogni volta che decidi di parlare o di scrivere della tua vita».

Un libro autobiografico dunque, ma non solo. Racconta un pezzo della storia di Roma, quella di Trastevere (dove l’autore è nato e ha vissuto per oltre cinquanta anni) che da periferia romana diventa pittoresca icona di se stessa, quartiere di plastica, Disneyland a uso e consumo di turisti in cerca di sensazioni da raccontare al loro ritorno dal viaggio. Ecco come Ilardi, sin dalle prime pagine, interpreta quello che a Pasolini appariva come la mutazione antropologica degli italiani, la fine della storia: «(…) la cultura del consumo ha sostituito quella del lavoro, il presente ha cancellato il passato e il futuro, la domanda di libertà ha sepolto l’etica della responsabilità, la rivolta sociale ha preso il posto della rivoluzione e dei movimenti, l’individuo si innalza sulle macerie del collettivo».

Il «cambiamento di rotta» dell’autore è solo apparente perché subito dopo prende le distanze da coloro che vedono in questo solo «una società violenta, incivile, distruttiva di ogni valore, per certi versi incomprensibile agli strumenti della nostra ragione e che sembra avanzare senza più ostacoli». «C’è qualcosa – afferma – che non torna in questa accusa». E qui l’autore riprende il vecchio adagio contro l’ordine costituito che è sempre violento, la politica dell’emergenza dettata da paure e controlli, strumenti securitari, pratiche di governo esse stesse produttrici di violenza, devianza o follia (dalla sua casa in via della Penitenza il bambino sentiva le urla strazianti di dolore dei carcerati di Regina Coeli). Quasi volesse prendere le distanze da «quel se stesso» protagonista del libro, Ilardi dichiara di non voler cedere a nessuna nostalgia del passato: «In realtà alle nostre spalle non abbiamo lasciato alcun paradiso perduto, alcuna passione tradita, alcuna concezione del mondo e della vita che si possano rimpiangere».

Tuttavia, nel corso della lettura la forza e il piacere della narrazione prende la mano a disdetta de (o addirittura contro) la premessa. Il libro racconta di un Trastevere poco noto, meno eroico della sua leggenda pittoresca e più intriso di vita quotidiana, di affanni, di cambiamenti che, all’inizio lentamente, ne modificano l’anima. Una metafora per tutte: il funerale del nonno: «Una carrozza tirata da sei cavalli neri con pennacchi sulle loro teste dello stesso colore. (…) la carrozza ferma davanti il portone era circondata da parenti, amici e abitanti della zona […]il brusio si fermò di colpo quando la bara apparve sul portone e un silenzio imponente calò sulla via. Il significato del silenzio di fronte alla morte l’ho imparato quella mattina (…) soprattutto oggi che va di moda l’idiozia dell’applauso».