Come si trasforma il perturbante freudiano – lo sconcerto che ci assale quando, all’interno dei confini saldi e ben tracciati dell’universo familiare, si allungano le ombre di qualcosa di minaccioso, trasformando la nostra casa (metaforica o reale) in uno spazio irriconoscibile, sinistro, sostanzialmente in un luogo estraneo? Quando questo spazio interiore appare compromesso e inabitabile, quando non c’è più una casa – almeno come la intendeva Bachelard, un cosmo protetto, fucina di révêries poetiche – a cui fare ritorno, bensì solo alloggi asettici e stanze inospitali, luoghi anonimi e sterili, città globalizzate prive di segni identitari, ridotte a fondali intercambiabili? Forse il concetto freudiano non basta più a esprimere il protratto straniamento suscitato da quel genere di racconto – al tempo stesso iperrealista e lacunoso – in cui eventi o relazioni sembrano tutt’altro che impossibili sul piano razionale e tuttavia restano opachi, impenetrabili alla logica ordinaria e quotidiana.

I luoghi dell’insolito
Interrogativi simili prendono corpo quando ci si immerge nella lettura dell’argentina Samanta Schweblin, ora residente a Berlino, autrice di culto per gli appassionati di letteratura dell’insolito, insieme a Mariana Enríquez, altra voce importante della rinascita che il fantastico latinoamericano sta conoscendo in questi ultimi anni. Nel caso di Schweblin, tuttavia, il rinnovamento è portato a così estreme conseguenze che l’etichetta «fantastico» risulta inappropriata e, a ben vedere, fuorviante.

Nella sua opera – dal 2002 ad oggi due romanzi, Distanza di sicurezza e l’ultimo Kentuki (traduzione di Maria Nicola, Sur, pp. 230, e 16,50), più quattro raccolte di racconti, di cui soltanto una tradotta in italiano, La pesante valigia di Benavides (2010) – non c’è traccia di quel fantastico moderno precocemente entrato nel canone della letteratura argentina, se non per alcune, complessive, consonanze, come l’ambientazione quotidiana o certe strategie invariabili del genere, per esempio la preferenza per una scrittura allusiva ed ellittica; né si ritrovano quelle torsioni del linguaggio che contraddistinguono la variante rioplatense del fantastico, ben esemplificata dai racconti di Julio Cortázar.

La letteratura di Schweblin fin dagli esordi si muove decisa verso territori più apertamente strani e stranianti, come dimostra «Olingiris», il racconto breve incluso nell’antologia di Granta (uscita nel 2010 in inglese), dove si riuniva il meglio della produzione under 35 latinoamericana. Tra quelle pagine, infatti, è descritta una tanto bizzarra quanto ritualizzata attività di depilazione collettiva femminile all’interno dell’«Istituto», parallelamente alle vite alienate e ripetitive delle due (non a caso) anonime protagoniste femminili, che in quel luogo lavorano.

Qui, il perturbante diviene, piuttosto, disturbante – visivamente e moralmente – come pure in un altro pezzo esemplare della narrativa breve di Schweblin, «Uccelli vivi» (nell’originale, «Pájaros en la boca», dà il titolo al volume la cui traduzione in inglese è valsa a Schweblin la candidatura al Booker Prize), dove la giovane Sara, incurante dello sbigottimento dei genitori, comincia a un certo punto a mangiare uccelli vivi: «Dandoci le spalle, si alzò in punta di piedi, aprì la gabbia e tirò fuori l’uccellino.

on riuscii a vedere cosa fece. L’uccello gridò e lei si agitò un poco…Quando Sara si voltò verso di noi l’uccellino non c’era più. Aveva la bocca, il naso, il mento e le mani sporchi di sangue».
La valenza ambiguamente allegorica di questo e degli altri racconti (che solo nella tendenza al finale aperto rievocano soluzioni consuete al fantastico canonico) ne esalta lo shock. Potente è anche l’impressione derivata dall’ultimo libro, il romanzo Kentuki, che si distanzia dalla produzione precedente nel proporre una distopia imperniata sulla fantascienza retrò, di cui contiene un elemento già nel titolo, dove si allude a animaletti di peluche dotati di una web cam e una connessione. Si può «essere kentuki» o «possedere un kentuki»: in altre parole, guardare o essere guardati grazie al rassicurante anonimato di una connessione, acquistabile per poche centinaia di euro. Attraverso questi pupazzi apparentemente innocui vengono stabilite relazioni tra gli individui più diversi, e situati nei luoghi più disparati: una anziana signora sola residente a Lima, un artista svedese che lavora in una residenza in Messico, una adolescente tedesca, un bambino di Antigua. Questi simulacri di relazione finiscono per mettere a nudo le fragilità e le perversioni della natura umana, esplorata da Schweblin con abilità e senza indulgenza.

Appena fuori posto
Tutto sommato, nulla di nuovo sotto il sole, basti pensare alla serie britannica Black Mirror, alla quale questo romanzo è stato spesso accostato: a ragione, perché in entrambi i casi la narrazione anti-realistica non conduce a soluzioni alternative e non consente di prospettare nuovi progetti esistenziali e politici, ma si limita piuttosto a constatare il fallimento dell’ordine presente sul piano individuale e collettivo, restituendo una fotografia a tinte fosche dell’epoca contemporanea, vera protagonista di Kentuki. Tuttavia, Samanta Schweblin riesce a toccare punti oscuri, e a riattivare angosce sotterranee in modo efficace, rimandando – nella sua predilezione per l’ossessivamente strano e per ciò che è impercettibilmente fuori posto – alle tesi di Mark Fisher in Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo (2018), suggestivo «aggiornamento» delle teorie freudiane sul perturbante e riflessione sui prodotti culturali del tardo capitalismo.