L’immagine divenuta iconica del fotoreporter equipaggiato con quattro-cinque reflex ciondolanti dal collo e dalle spalle (impersonato da uno strepitoso Dennis Hopper), nella giungla cambogiana del finale di «Apocalypse now», fu folgorante per i ragazzi degli anni ’70 che si avvicinavano alla fotografia. Così come, nel decennio precedente, lo era stata la figura del fotografo di moda Thomas (il più convincente David Hemmings visto al cinema) in «Blow up». Non risparmiandosi sortite nella fotografia del sociale, anche Thomas adoperava apparecchi dal formato piccolo: si muoveva nella psichedelica Londra dell’epoca con l’inseparabile Nikon F, precorritrice delle moderne fotocamere col sistema reflex. Quasi sempre, nei notiziari televisivi e sulle pagine dei rotocalchi, faceva capolino quella macchina tenuta a tracolla dai fotoreporter di guerra che seguivano gli accadimenti in Vietnam e – come nel film di Coppola – nel più vasto scacchiere del Sud-est asiatico.

Maneggevoli, robuste, consentivano un’immediata esecuzione di ripresa. Ma il meglio si otteneva dalle loro ottiche, che ordinavano con rapidità nel «photomic» (il mirino esposimetrico ben visibile nelle macchine del fotografo-marine catapultato sul fronte del fuoco di «Full metal jacket», anni ’80) linee, piani, sagome, per creare immagini simboliche da dare in pasto a un’opinione pubblica predisposta a venire informata sull’andamento di quel conflitto: il primo, nella storia, che ne trasmetteva i crudi eventi in presa diretta. Da soggetti faciloni, attratti dall’esteriorità e da tutto ciò che suscitava forte impatto sull’immaginazione adolescenziale, ci lasciavamo suggestionare dagli obiettivi a cannocchiale, i tele con focale lunga, che comunicavano all’insieme l’idea del dinamismo e dell’azione: insiti nel mestiere del fotografo di strada. Ma, eravamo noi a trovarci fuori strada. Una foto, per rendere a sufficienza l’idea del dinamismo e dell’azione, si ottiene con il normale, il 50 millimetri, che riprende quel che si vede realmente, ossia la normale (perciò si dice così) dimensione del soggetto (costringendo dunque a stargli vicino) inquadrato nel mirino.

Nel primo decennio delle reflex «Blow up» ci sembrò, benché i messaggi dell’autore della pellicola fossero altri, un omaggio a quel sistema fotografico e al suo archetipo, il modello F. Blow up è ingrandimento in fase di stampa per evidenziare un dettaglio altrimenti sfuggevole; ma l’ingrandimento dell’ingrandimento, e poi ancora, produce sgranatura, un effetto che restituisce l’immagine confusa, poco leggibile (la scena cruciale del delitto nel parco). Per scongiurarlo, l’uso del teleobiettivo in quel caso sarebbe stato sì appropriato, poiché la ripresa era avvenuta da lontano; e allora il film di Antonioni avrebbe avuto un’altra storia. E un altro titolo.