Qualcuno dorme in auto, qualcun altro in moschea. Ma la maggior parte delle centinaia di persone che da giorni campeggiano davanti alla prigione di Silivri, a Istanbul, resta sotto il sole caldo di fine luglio. Sono i familiari di alcuni dei migliaia di soldati arrestati dopo il tentato golpe del 15 luglio: sono qui, in attesa. Vogliono notizie dei figli, dei mariti, dei fratelli. Non sanno dove sono, né quanto ci resteranno. Di certo sanno solo che sono in mano allo Stato.

Da lunedì un vero e proprio campo è nato di fronte ai cancelli del complesso di Silivri, famiglie arrivano da tutto il paese per sapere cosa ne è di 1.600 reclute, una piccola parte degli 8.651 soldati che ieri le forze armate hanno detto essere stati arrestati. Non hanno ricevuto comunicazioni dalle autorità: una forma di sparizione forzata (come denunciato nei giorni scorsi da Amnesty International) che ricorda pratiche egiziane.

«Il mio ragazzo è innocente. Prendeva solo ordini», grida Nevin, la madre di Gorkem Ilhan, 23 anni. Gli mancavano 5 giorni per terminare il servizio militare quando una fazione dell’esercito ha tentato il putsh. «Sta pagando per aver obbedito, per aver fatto quello che gli hanno detto di fare».

Una storia simile a quella di molti altri, alcuni rilasciati: il governo ha fatto cadere le accuse nei confronti di 2mila militari perché non erano al corrente del golpe. Ilhan lo aveva saputo poche ore prima, racconta la madre, ma è stato minacciato: obbedisci o sei morto.

Le storie si somigliano tutte: c’è Tulay Baseymez, che non trova più suo figlio Selcuk di 28 anni («Un mese fa era a sud est \[contro il Pkk\]. Ero la madre di un ufficiale, ora sono la madre di un traditore»); c’è Ahmet Atas, arrivato dalla città meridionale di Van, alla ricerca del nipote 20enne Hayrettin; c’è Tekmile Unal, da Kirklareli, che ha visto portare via da casa il figlio 26enne Sinan.

Lo stato d’emergenza imposto dal governo dell’Akp non aiuterà a migliorare le condizioni di detenzione dei golpisti, veri o presunti: il fermo è stato esteso ad un mese, 30 giorni durante cui il sospetto resta in custodia, senza poter vedere un giudice. Cosa possa accadere in quel mese è immaginabile e il rapporto di Amnesty ne dà una chiara idea: interrogatori prolungati per estorcere confessioni, torture, stupri.

A ciò si aggiunge la difficoltà a rivolgersi ad un avvocato: è il tribunale a scegliere i legali dei “traditori”. Fuori da Silivri, insieme alle famiglie, c’è Berat Can Tanik, avvocato che ha da poco terminato la leva. L’ha scampata per poco. Ora rappresenta 8 commilitoni ma non è ancora riuscito a vederli: «Non sono autorizzato ad incontrarli. Ma ho letto le loro dichiarazioni: gli era stato detto che fuori c’erano dei disordini e la polizia non riusciva a contenerli».

Intanto lontano dal super carcere si pianifica la costruzione di un super tribunale: il ministro della Giustizia Bozdag ha annunciato la creazione di una nuova corte nel distretto di Sincan, ad Ankara, dove si terrà il maxi processo contro gli ufficiali accusati di golpe.

Prosegue anche la più generale campagna di epurazione nel paese: Erdogan infila tutti nel comodo calderone del movimento dell’imam Gülen. Ci finiscono tutti, anche soggetti in passato bollati con tutt’altra etichetta: marxisti, sostenitori del Pkk o del presidente siriano Assad. Dalle purghe non potevano di certo salvarsi gli ex dipendenti del quotidiano di opposizione Zaman, commissariato a marzo perché legato a Gülen: sono stati spiccati ieri mandati d’arresto per 47 giornalisti ex impiegati del giornale. Tra loro gli ex direttori delle versioni turca e inglese.