Nel 1979, un anno prima della prematura scomparsa, Franco Basaglia era ancora nel pieno della battaglia politica e istituzionale che seguì la promulgazione della sua Legge 180, il 13 maggio 1978. Come scriveva su Repubblica,«il fascino discreto del manicomio» risultava ancora attuale. Storpiando a proprio uso il titolo buñueliano di un celebre film, Basaglia è così riuscito a indicarci oggi una delle strade possibili per continuare a riflettere sulla sua azione – contraddittoriamente intrisa di sensocivico e passione intellettuale – di aprire i cancelli dei manicomi.

Dieci anni fa, per il trentennale, sembrava il cinema a doversi incaricare di indicare possibili direzioni di lettura. Oggi lo stesso cinema, inteso come media non come industria, sembra aver diminuito – e per fortuna non del tutto esaurito – la sua funzione di dispositivo pubblico, dimensionata al privato degli streaming e dei new media.

NEL QUARANTENNALE DELLA «LEGGE BASAGLIA», ci concediamo una sorta d’intervallo necessario, sul crinale di quel perdersi e di quel ritrovarsi, nati da una lettura trasversale che non deve più raccontare come «l’impossibile può diventarepossibile» (lo è già diventato), ma illustri il tentativo di immaginare come ciò possa esser stato letto con un anticipo di quarant’anni o di pochi mesi, attraverso la mediazione di gesti artistici.

Ecco che, molti passi e uno prima che la Legge mettesse finalmente al centro la figura del malato, del cosiddetto matto, e non la malattia, Gillo Dorfles e Giovanni Testori, in alcuni spazi circoscritti della loro lunga e rispettiva produttivitàartistica e intellettuale, hanno saputo e volutoosservare, per l’appunto, i malati dipingendoli per come erano, nella loro piena e contraddittoria umanità di uomini e donne, pienamente dotati di diritti, fossero anche abitati dalla follia.

Nelle opere di Dorfles, la pazzia è evinta nominalmente come luogo comune a scorgere i titoli di alcune opere poteri temporali e istituzionalizzati come vescovi e generali; in Testori la ricerca dà voce a condizioni misere e d’emarginazione dettate dalla vecchiaia. Queste osservazioni furono agitate soprattutto da esperienze personali.

Nel caso specifico Dorfles, già alla fine degli anni Trenta (1937-40) e ritornadovi a metà degli anni 80, mise a frutto in poco più di una dozzina di disegni la sua specializzazione psichiatrica, come allievo di Cesare Frugoni e protégé del padre dell’elettrochoc Ugo Cerletti, per riprendere il tema molti anni dopo, nella pubblicistica condotta sul Corriere della Sera, in alcuni articoli riguardanti il rapportotra arte e follia.

Un ulteriore notazione riguard a la possibilità che Dorfles e Basaglia si siano più volte incontrati e di certo qualche incontro ci sarà stato, pur non avendone lasciato tracce documentali (non vanno però dimenticati i natali triestini del critico del Kitsch.

DEL RESTO, DORFLES NON SARÀ STATO IGNARO, nel 1974 e nel 1976, anni caldi per la costruzione della futura «180», dell’iniziativa del nipote Piero che, con Renato Parascandoloe Raffaele Siniscalchi, realizzò per la trasmissione Cronaca di Rai Due i reportage Insieme ai pazienti e Dietro l’alibi della follia, girati nell’ospedale psichiatrico di Arezzo, diretto dal basagliano Agostino Pirella, scenario anche de Il fantasma del manicomio, un terzo documentario girato nel 1979, a un anno dall’approvazione della Legge, con i pazienti ormai «liberi».

E non vanno dimenticati gli studi fenomenologici di Basaglia e la sua fascinazione per Sartre, a fare il paio con il lavoro redazionale di Dorfles per la rivista Aut-Aut di Enzo Paci che, fin dalla sua fondazione, ospitò importanti traduzionidel filosofo francese, come anche le prime uscite pubbliche del Gruppo 63, cui partecipò Giuliano Scabia, che consegnò a Basaglia l’iconico azzurro di «Marco Cavallo», scultura simbolo di quella «riforma».

ANCHE PER TESTORI SI DEVE PARLARE D’INCONTRI straordinaricon la grande letteratura, l’incessante riscrittura testorianadell’Amleto di Shakespeare che andrebbe messa a confronto con l’altra grande fascinazione basagliana per il teatro di Pirandello. Ma anche il suo farsi incontro con quadri e artisti che questi temi avevano affrontato senza reti di protezione, come Géricault, straordinariamente amato già negli anni Sessanta, quando l’artista francese era ancora «questo sconosciuto», e prediletto in particolare negli anni Settanta, quando il drammaturgo lombardo scelse di adornare le copertine dei pannelli laterali della «Trilogia degli scarozzanti» con due dettagli tratti dai suoi dipinti.

Un amore da tenere in conto, quando esegue una serie di ritratti di donne, realizzata nel 1977, anno cruciale per Testori a causa della morte della madre che aprirà una nuova e feconda stagione nel suo itinerario letterario e teatrale. È una particolare attenzione agli stravolgimenti della psiche umana, che lo accompagna anche nei commenti dedicati alla pittura di Willy Varlin, dei Nuovi Selvaggi, come di un grande isolato come Giancarlo Vitali, autore, a metà anni Ottanta, di due folgoranti personaggi come La pazza di Sant’Agata e La donna dei gatti.