Non si tratta di chiosare la cronaca politica: le continue stragi nel Mediterraneo, la crescita dei movimenti sovranisti, la perseveranza con cui le élites di Bruxelles seguitano a proporre i dogmi dell’austerità. Occorre predisporsi a uno scavo più impegnativo.

Un paio di mesi fa su L’Espresso Massimo Cacciari toccava il cuore di questo scavo, ribadendolo pochi giorni fa, in intervista all’Osservatore Romano. Il cuore è l’Europa. È l’Europa a essere in crisi e a mettere in crisi il mondo, invecchiata, incapace di audacia, di ritessere un discorso pubblico in grado di affrontare l’età nuova che si è aperta nel segno di macroscopiche trasformazioni. E tuttavia è questa Europa – scrive Cacciari – a essere, a dover essere la nostra Patria. Siamo d’accordo. In questo senso il nostro destino non può che coincidere con un grande progetto federalista che superi il rinascente virus nazionalista.
La prima riflessione è appunto sul crinale tra identità e sovranità europea e nazionalismo. Il dramma di questo ennesimo ritorno in auge della dottrina nazionalista – in Italia e in gran parte del Continente – ci costringe a ricordare l’ovvio, cioè che la nazione non esiste in natura.

Un grande storico britannico del Medio Oriente, Elie Kedourie, ricordava la genesi ottocentesca della dottrina della nazione. L’obiettivo di dare sovranità alla nazione, ipotizzata come espressione organica di radici omogenee, è un’invenzione della borghesia, in primo luogo tedesca, che tenta di accompagnare ideologicamente i processi di sviluppo industriale ed espansionismo commerciale e militare che segnano la sua ascesa.

È un prodotto storico del capitalismo otto e novecentesco, parte essenziale del problema, non della soluzione. Per questo la nazione è la negazione del divenire storico, del meticciato, dell’idea di una identità pros eteron, come avvicinamento all’altro. La trasposizione politica della nazione ha bisogno di confini e di eserciti, di dazi e di miti. Perciò in grembo porta sempre la guerra, come suo figlio legittimo. Da qui nascono i due secoli di disordine, le due guerre mondiali, la tragedia infinita della Shoah.

Più che una grande Patria che si sovrapponga alle appartenenze nazionali, dobbiamo ripensare a fondo le coordinate dello spazio politico. Non solo perché anche il concetto di Patria contiene una genealogia maschile che è coessenziale al nazionalismo, ma soprattutto perché la Patria implica inevitabilmente la condizione del confine e del limite. Esattamente ciò che l’Europa non è. Krizysztof Pomian, grande intellettuale polacco, definiva l’Europa come un campo di forze contrastanti: una forza centripeta, il progetto universale che fonda se stesso sul superamento delle piccole patrie. E al contempo una forza centrifuga, la spinta del particolare, delle identità locali. Forse la nostra Europa è anche la valorizzazione radicale di questa idea di locale, di territorio, che non cancelli ma anzi realizzi appieno il sogno universale.

L’Europa come grande disegno federale ma anche come reticolo delle casematte della democrazia, del protagonismo civile e civico. E poi la dimensione di un’Europa così perennemente in fuga da se stessa da diventare – scrive Cacciari – Patria che fugge, accogliendo la condizione della diaspora. Andare più che stare. Navigare più che stanziare. Ecco il ruolo simbolico e materiale del Mediterraneo. Oggi cimitero di innocenti. Ma nella storia e nel mito teatro di incontri, scambi, dialoghi mai interrotti. Quanto sono simili l’epica greca e le teogonie orientali? La civiltà europea non è precisamente la barriera dell’ospitalità contro il disagio dell’indifferenza?

Qui tornano l’ebraismo e il cristianesimo, ipocritamente ostentati dagli aedi del nazionalismo e invece veri fertilizzanti della nostra identità nella loro costitutiva predisposizione all’accoglienza. Il primo peccato di Sodoma fu rinnegare l’ospitalità a due ospiti di Abramo e Sara alle Querce di Mamre (Genesi, 18-19). E Cristo dice: «Ero straniero e mi avete accolto» (Matteo 25,35). Nelle settimane scorse è stato impeccabile padre Spadaro nel ricordare che Cristo è la lavanda dei piedi, non il rosario esibito. E la Chiesa di Cristo è di chi scaccia i mercanti dal tempio. Non dei mercanti del tempio.

Sono le nostre radici giudaiche e cristiane. Per recuperare la via – non appaia illogico il salto – occorre però la politica, e nella politica l’organizzazione e il pensiero di una nuova sinistra all’altezza di queste sfide. Non è sufficiente l’evocazione di un disegno federalista e neppure l’invocazione della forza spirituale della Chiesa. Occorre qui e ora il punto di vista autonomo della sinistra, occorrono le ragioni dell’eguaglianza e del lavoro. Una sinistra che ponga al- meno le basi di una riflessione virtuosa, sincera. Che si confronti con le difficoltà tattiche e strategiche che impediscono oggi all’Ue di essere quel progetto di sovranità federale cui ambiamo. Un programma di governo su scala europea, sia chiaro. Ma con il contributo di ciascuna sinistra nazionale.

In Italia davvero vi è chi pensi che può farlo questo Partito democratico, in balia di nodi irrisolti che si trascinano sin dalla sua fondazione? O le piccole organizzazioni politiche a sinistra del Pd, ciascuna figlia di un diverso fallimento? Continuiamo a ritenere che occorra un atto di sensata generosità da parte delle classi dirigenti che hanno contributo a queste sconfitte e sono volto di questa inadeguatezza. E un atto di altrettanto lungimirante coraggio da parte di intellettuali come Massimo Cacciari e di nuove energie, politiche, civiche, associative, culturali perché riorganizzino un campo democratico e progressista nuovo, intelligente, credibile. Se ci è permesso: lucido e visionario.